Dodici mesi di Balcani. Dalla questione Kosovo al processo a Karadzic, il secondo semestre del 2010 è stato denso di avvenimenti, concentrati attorno ad un unico epicentro: Belgrado.
Luglio. L’indipendenza del Kosovo è legittima. Lo dice la Corte di giustizia dell’Aja, secondo cui la dichiarazione unilaterale del 17 febbraio 2008 non viola le leggi internazionali. Milorad Dodik, primo ministro della Repubblica serba di Bosnia, esulta: “Se il Kosovo diventa indipendente, non vedo perché non dovremmo esserlo anche noi”.
Agosto. Esplode il caso Fiat Serbia. L’ad Marchionne ha deciso: la monovolume L0 non verrà prodotta a Mirafiori, ma a Kragujevac. Il motivo è semplice: gli operai balcanici ricevono uno stipendio di 400 euro, contro i 1.100-1.200 di chi lavora a Torino. Per i lavoratori serbi è una boccata d’ossigeno. Per quelli italiani una mazzata tremenda.
Settembre. Belgrado accetta di dialogare con Pristina. Le Nazioni Unite adottano una proposta di risoluzione sul Kosovo in cui Bruxelles si propone di mediare tra le parti. L’argomento “indipendenza” resta delicatissimo, ma c’è un fatto nuovo: la disponibilità della Serbia a intrattenere relazioni diplomatiche con la provincia ribelle.
Ottobre. L’estrema destra serba fa tremare l’Europa. Il 10 ottobre gli ultranazionalisti omofobi devastano la capitale in occasione del Gay Pride. Il 14 i “tifosi” più violenti della Nazionale di calcio impediscono lo svolgimento della gara con l’Italia, a Genova. Due avvenimenti che allontanano Belgrado dall’Unione europea: esattamente il risultato sperato dai criminali.
Novembre. Dopo le scuse per Srebrenica, quelle per Vukovar. Il presidente serbo Tadic chiede perdono ai croati per lo sterminio di 261 persone nell’agosto 1991. Il passato recente balcanico pesa come un macigno: a metà mese Serge Brammertz, procuratore capo del Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia, accusa le autorità serbe di non fare abbastanza per trovare il latitante Ratko Mladic.
Dicembre. Muore il diplomatico statunitense Richard Holbrooke. “Mi promise l’impunità in cambio del mio ritiro a vita privata”: lo dice Radovan Karadzic, il boia di Srebrenica sotto processo all’Aja. Lui stesso ammette che non esistono testimonianze scritte dell’accordo. Il racconto del massacratore può essere anche considerato verosimile. Ma per ora è impossibile da provare.
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