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Archive for ottobre 2012

Hasan Muratovic è stato primo ministro bosniaco e rettore dell’università di Sarajevo (italiaglobale.it)

Hasan Muratovic è stato il primo capo di governo bosniaco dopo la guerra degli anni ’90. Durante il conflitto era stato ministro degli Interni; tra ’96 e ’97 è stato primo ministro, poi è stato per due anni  vicepresidente del Consiglio d’Europa e per quattro ambasciatore in Croazia. Tra 2004 e 2006 è stato rettore dell’Università di Sarajevo, dove insegna tuttora alla facoltà di Economia. Qualche giorno fa era in Italia per una conferenza organizzata dall’organizzazione umanitaria Intersos. Quella che segue è la trascrizione dell’intervista che gli ho fatto per la trasmissione “Esteri” di Radio Popolare, andata in onda ieri, 29 ottobre.

Tra i temi della conferenza a cui ha partecipato in Italia c’era la prevenzione delle guerre. Quella in Bosnia poteva essere evitata?

Sì, nello stesso modo in cui fermata: con gli attacchi della Nato contro la Serbia, contro le sue infrastrutture, contro il suo esercito. Questo però fu fatto solo dopo 40 mesi di guerra. Il conflitto avrebbe potuto essere fermato subito, ma invece della Nato arrivarono le forze Onu, che si proclamarono neutrali e portarono una pace che non esisteva.

Lei partecipò alla preparazione dei negoziati di Dayton, che posero fine alla guerra. A distanza di 17 anni, come giudica l’accordo che uscì da quei negoziati?

Avrebbe dovuto essere migliore. La parte che riguardava lo stop alle armi funzionò rapidamente ed ebbe molto successo. La parte “civile”, dai diritti umani alla ricostruzione della Bosnia, non ha funzionato bene. Ancora oggi abbiamo problemi nell’applicarla. La struttura del nostro Stato non ha mai iniziato a funzionare. In questi anni si è sviluppata, ma non può funzionare sotto una Costituzione che è stata scritta a Dayton e non è mai stata accettata in parlamento.

Al momento qual è la situazione politica del Paese?

Probabilmente la peggiore dai tempi di Dayton. Abbiamo avuto le elezioni due anni fa. Ci sono voluti 17 mesi per formare il governo, e pochi giorni fa è caduto di nuovo. Anche a livello locale ci sono problemi, dovuti alla Costituzione e alla composizione dei governi locali. Il 13 ottobre ci sono state le amministrative: la maggior parte dei cantoni non è andata alle urne, perché i partiti si sono rifiutati di votare con la legge attuale.

A che punto è il processo di adesione della Bosnia all’Unione europea?

Si è praticato fermato 4 anni fa, a causa dei problemi tra i partiti. Ci stiamo muovendo molto, molto lentamente verso Bruxelles. Eppure il solo modo di risolvere i nostri problemi è entrare nell’Unione. Finchè siamo fuori, non vedo speranze né per la nostra politica, né per l’economia, né per la società. Bruxelles dovrebbe essere più comprensiva con noi, come ha fatto – per esempio – con Bulgaria e Romania. Siamo un Paese molto piccolo, come economia e non solo. Se l’Unione mostra più comprensione, possiamo integrarci velocemente.

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Il prete croato Sime Nimac, 34 anni (ilmessaggero.it)

Prendi i soldi e scappa, ma non è Woody Allen. Parliamo di Sime Nimac, 34 anni, prete croato sconosciuto fino a pochi giorni fa: fin quando non è stato accusato di aver venduto un terreno della sua ex parrocchia e di essere fuggito non solo (si fa per dire) con un milione di euro, ma anche con una donna sposata, dipendente della banca da cui avrebbe ritirato la somma. L’avventura però è finita presto: il frate è stato individuato grazie al segnale del suo cellulare. Ed è stato arrestato.

Tutto inizia a Baska Voda, cittadina turistica sulla costa croata meridionale. L’arcivescovo di Spalato autorizza la vendita di un terreno per finanziare la ristrutturazione di una chiesa locale. Dell’affare si occupa Nimac: firma il contratto, preleva i soldi e scappa. La stampa lo descrive subito come playboy, amante della bella vita, diviso tra povere parrocchie e oggetti di lusso. Si  parla di una Chrysler, di abiti di marca, persino di un piccolo yacht. E della misteriosa bancaria, naturalmente. Notizie che a quanto pare escono dalla bocca dei suoi fedeli, indignati dal tradimento. Può darsi che lo facciano per vendicarsi, o quantomeno che esagerino. Di sicuro fanno felici i giornali croati.

L’epopea, però, finisce in fretta. Nimac viene trovato a Zagabria, 450 chilometri più a nord. Sembra che con lui ci fosse la donna dello scandalo: “una bionda”, scrive qualcuno. L’arcidiocesi di Spalato si scusa “per la giustificata indignazione dell’opinione pubblica e dei cattolici”, e condanna il “comportamento deplorevole di un individuo egoista e insaziabile”. Probabilmente è vero, per carità. Ma in confronto ad alcuni nostri politici, sembra roba da dilettanti.

Fonti: Ansa, Giornalettismo

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Milo Djukanovic festeggia la vittoria alle parlamentari montenegrine di due giorni fa (cdt.ch)

Ha vinto ancora. Milo Djukanovic resta al potere in Montenegro, dove domina ormai da più di 20 anni. La sua coalizione ha vinto le elezioni parlamentari, e anche se pare che non avrà la maggioranza assoluta – dovrà allearsi con i piccoli partiti delle minoranze etniche – ha comunque ottenuto il doppio dei voti rispetto all’opposizione. “Avanti verso l’Unione europea”, dice ora l’uomo che meno pare intenzionato a rimuovere gli ostacoli tra Podgorica e Bruxelles, a cominciare dalla corruzione.

Djukanovic ha 50 anni. Quando è diventato primo ministro non ne aveva nemmeno 30, e la disgregazione jugoslava era appena iniziata. Da allora ha saltato tra la poltrona di capo di governo e quella di presidente più volte, mantenendo una carica o l’altra quasi ininterrottamente tra 1991 e 2010. Ora può tornare a guidare l’esecutivo, ma non è detto che lo farà. E forse non è nemmeno importante. Quello che conta, per il Paese e per Djukanovic stesso, è che quest’ultimo continuerà a pesare, a tirare le fila. Per la prima volta negli ultimi dieci anni le forze che lo sostengono non hanno superato il 50%. Ma lui è ancora lì, senza un avversario politico veramente in grado di scalzarlo.

Il Montenegro ha adottato l’euro unilateralmente, come il Kosovo, senza aspettare di entrare nell’Unione. Cosa che ora vorrebbe fare. Cosa può impedirlo? Forse l’alto tasso di corruzione. O la scarsa libertà di stampa. O i sospetti su un sistema di potere comandato da uomo che in Italia è stato indagato per associazione mafiosa, contrabbando di sigarette e riciclaggio di denaro. Djukanovic spera di convincere Bruxelles puntando su quel pragmatismo (nella migliore delle ipotesi) che gli  permette di dominare dentro i confini nazionali. Funzionerà anche all’estero?

Fonti: Ansa, Asca, TMNews

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L’amministratore di Geox Mario Moretti (il primo a sinistra) firma l’accordo con le autorità serbe

Ci risiamo. Ancora un’azienda italiana che delocalizza, e ancora una volta la destinazione è la Serbia. Dopo Fiat e Benetton (solo per citare due esempi) ora tocca a Geox: l’impresa veneta produrrà le sue scarpe a Vranje, nel sud del Paese, vicino al confine macedone. Il motivo è lo stesso che ha portato Marchionne a Kragujevac, 260 km più a nord: la manodopera costa molto meno che da noi e le autorità offrono condizioni a dir poco vantaggiose a chi porta lavoro.

Non che i motivi per seguire altre strade manchino. Uno su tutti: le istituzioni serbe promettono di tutto, ma non sempre mantengono. È di fine agosto la notizia che Belgrado non riuscirà a tener fede ai suoi impegni con Fiat per quest’anno. Nelle casse del Lingotto entrerà il 55% dei 90 milioni che avrebbe dovuto ricevere dal governo. Evidentemente, però, l’idea di poter dare ai lavoratori uno stipendio tre volte più basso di quello medio italiano basta e avanza per continuare a considerare la Serbia come l’Eldorado a due passi da casa.

L’impianto serbo di Geox dovrebbe occupare 1.250 operai, e produrrà calzature femminili di alta qualità. Belgrado pagherà all’azienda 9mila euro per ogni assunto. “Quello che Fiat significa oggi per Kragujevac, significherà Geox per lo sviluppo di Vranje”, ha detto il ministro dell’Economia. L’Italia è davvero “un partner chiave politico ed economico”, come l’ha definita il neo-presidente serbo Nikolic, che domani sarà a Roma per vedere Monti e Napolitano. Dal nostro Paese arrivano soldi e lavoro, e cambia poco il fatto che alla guida di Belgrado non ci sia più il super-europeista Tadic. Quando si parla di affari, anche le questioni geopolitiche passano in secondo piano.

FONTI: Il Sole 24 Ore, economiaweb.it

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Bob Dylan a Zagabria nel 2010 (nacional.hr)

Che c’entrano il Ku Klux Klan, la Croazia e il nuovo singolo di Bob Dylan? Nulla, in effetti. Se non fosse che la radio cittadina di Spalato ha deciso di non trasmettere Duquesne Whistle, l’ultimo pezzo di Dylan, dopo che quest’ultimo ha praticamente paragonato i croati agli schiavisti e ai nazisti. Un incidente diplomatico che però sembra nato più dalla leggerezza con cui il cantautore ha tirato in ballo certi nomi, che non da un’effettiva volontà di offendere.

“Se nel sangue hai lo schiavismo o il Ku Klux Klan, i neri possono percepirlo – ha detto Dylan alla rivista Rolling Stone. – Nello stesso modo, gli ebrei possono percepire il sangue nazista, e i serbi quello croato”. Un ragionamento più che spericolato, da cui non si capisce se il cantante volesse goffamente riferirsi alla componente nazionalista tuttora presente nei due Paesi balcanici, oppure se intendesse proprio insultare i croati in quanto tali, mettendoli sullo stesso livello dei peggiori criminali della storia. La prima ipotesi pare la più credibile, perché il discorso di Dylan è generico e perché non si capisce cosa lo avrebbe spinto ad attaccare così un intero popolo: nel migliore dei casi, però, il cantautore ha pesato male le parole, e forse è questa la vera notizia, vista l’abilità con cui ricorre al dizionario quando scrive i suoi pezzi.

Le conseguenze di cui si ha notizia non sono comunque drammatiche: Radio Split ha cancellato dalla programmazione il singolo di Dylan, e il cantante croato Miso Kovac (una vera star ai tempi della Jugoslavia, par di capire da Wikipedia) gli ha chiesto pubblicamente perché ha deciso di “filosofeggiare su fatti che non conosce”. Domanda condivisibile, seguita da una stoccata “artistica”: “Elvis Presley era una leggenda, tu no”. Fino a pochi giorni fa Kovac e Dylan avevano in comune professione ed età, 71 anni. Ora li unisce anche una polemica transoceanica.

FONTI: Il Piccolo, Linkiesta, Croatian Times

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