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Posts Tagged ‘ashton’

Il presidente serbo Nikolic e il capo della diplomazia europea Ashton (foto European External Action Service, http://bit.ly/18HnU5u)

Il presidente serbo Nikolic e il capo della diplomazia europea Ashton (foto European External Action Service, http://bit.ly/18HnU5u)

Sette anni fa si sono divisi. Ora tornano ad avvicinarsi. Serbia e Montenegro sono stati uniti a lungo, prima che il secondo lasciasse la prima con un referendum. A questo strappo si è aggiunto quello del 2009, quando Podgorica ha riconosciuto l’indipendenza del Kosovo. Adesso però i rapporti sembrano migliorati, indirizzati verso l’obiettivo comune dell’Unione europea.

Qualche giorno fa a Belgrado è arrivato Milo Djukanovic, il padre-padrone del Montenegro, primo ministro oggi e molte altre volte dal 1991. Nella capitale serba non si vedeva dal 2003. Allora ci era andato per i funerali di Zoran Djindjic, capo del governo ucciso a colpi di arma da fuoco. Dieci anni dopo è ricomparso e ha firmato un accordo di collaborazione nel percorso dei due Paesi verso Bruxelles. Il primo ministro ospitante Dacic ha ribadito che la scelta montenegrina di legittimare il Kosovo è stata sbagliata, ma ha aggiunto che questo non porta Belgrado a voler complicare le relazioni con Podgorica. Parole che confermano l’impressione degli ultimi mesi: la Serbia sembra aver sempre meno voglia di rivendicare il controllo su Pristina.

Distensione con il Kosovo, distensione con il Montenegro. Quella di Belgrado pare una linea politica precisa, mirata all’ingresso nell’Unione, che vede di buon occhio ogni riduzione delle tensioni. E dire che in Serbia non comandano i moderati: nel 2012 le presidenziali sono state vinte dal nazionalista Nikolic, che ha battuto l’europeista Tadic. L’altro primo attore è appunto Dacic, portavoce per anni del partito di Milosevic. Gli (ex?) estremisti si cimentano con la Realpolitik, e sembrano avere successo: entro poche settimane Belgrado potrebbe avviare il negoziato di adesione alla Ue. Podgorica lo ha fatto l’anno scorso.

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Uno degli eventi più celebrati della storia serba, la battaglia della Piana dei Merli, si tenne nel 1389 nell'odierno Kosovo (Wikipedia)

Uno degli eventi più celebrati della storia serba, la battaglia della Piana dei Merli, si tenne nel 1389 in Kosovo (Wikipedia)

I colloqui Belgrado-Pristina continuano a dare frutti. Ieri i loro rappresentanti si sono accordati su due temi importanti per la vita quotidiana delle persone: elettricità e comunicazioni. A Bruxelles, dove si tengono i negoziati, tutto sembra filare liscio, mentre in Kosovo il primo test importante saranno le elezioni di novembre.

Il primo ministro serbo Dacic, quello kosovaro Thaci e la mediatrice europea Ashton si sono visti per proseguire una serie di incontri che ha avuto il suo punto di maggior successo ad aprile, quando le parti si sono avvicinate come non erano riuscite a fare fino ad allora. Ieri si è deciso che Pristina avrà un prefisso internazionale autonomo (0083) distinto da quello di Belgrado, ma la minoranza serba che vive in Kosovo dovrebbe poter continuare a chiamare la madrepatria senza i costi aggiuntivi dovuti per una telefonata internazionale. La (ex) provincia ribelle diventa autonoma dal punto di vista elettrico, staccandosi dalle reti di Belgrado, che però – a quanto pare – fornirà ancora energia alle zone abitate dai serbi (principalmente il nord).

Un compromesso dietro l’altro, a prova della Realpolitik che le autorità in gioco applicano da mesi. In comune c’è l’obiettivo dell’adesione all’Unione europea, che vede di buon occhio ogni segno di calo della tensione nell’area. Bruxelles aspetta il voto locale del 3 novembre, che parte dei dirigenti serbo-kosovari minaccia di boicottare. Il Kosovo continua a essere uno Stato per 103 dei 193 Paesi Onu, e per 23 dei 28 Ue. Non lo è per Belgrado, che su questo punto sembra aver fissato la sua “linea rossa”. Un baluardo che farà piacere ai nazionalisti, ma che pare sempre più formale.

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Il “ministro degli Esteri” europeo Catherine Ashton con il presidente croato Ivo Josipovic (www.eu-un.europa.eu)

È iniziato oggi un viaggio di Catherine Ashton nei Balcani occidentali. L’Alto rappresentante per la politica estera della Ue dovrebbe cominciare dal Montenegro e poi toccare Albania, Macedonia, Serbia e Kosovo. La visita arriva in un momento delicato per i rapporti tra Belgrado e Pristina, e nei giorni in cui dovrebbe arrivare un rapporto della Commissione europea sugli eventuali progressi fatti dai Paesi candidati a entrare nell’Unione.

La Ashton ha spiegato il tour balcanico con la volontà di rafforzare la “prospettiva europea” degli Stati della regione. I candidati sono Macedonia, Montenegro e Serbia; un passo più indietro, cioè allo status di “potenziali candidati”, si trovano Albania, Bosnia e Kosovo. Molto più avanti la Croazia, che a luglio dovrebbe diventare il 28° membro della Ue. Proprio oggi a Zagabria era previsto un incontro tra il commissario europeo alla Giustizia e il presidente croato. L’adesione del suo Paese sembrava poter essere rinviata per contrasti con la Slovenia, già dentro l’Unione, ma un paio di settimane fa il parlamento di Lubiana pare aver sbloccato la questione, ratificando l’adesione della Croazia.

Più incerto il percorso degli Stati candidati, o potenziali tali. In particolare nelle ultime settimane si è parlato di possibile rallentamento per la Serbia, che non riesce a fare passi avanti nel dialogo col Kosovo. Proprio la Ashton ha fatto da mediatrice negli scorsi mesi, finora senza successo. Integrare nella Ue i Paesi balcanici, e in particolare quelli ex-jugoslavi, dovrebbe essere un modo anche per contribuire a “stabilizzare” l’area, a pochi anni dalla fine dai conflitti degli anni ’90. In questo momento, per fortuna, l’unica “guerra” che ferisce il continente è quella della crisi economica. Crisi che si sente con forza anche da Belgrado a Sarajevo. E che potrebbe essere uno degli argomenti centrali dei colloqui di questi giorni dell’Alto rappresentante.

FONTI:  Ansa, Tgcom, Il Piccolo

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Da sinistra il primo ministro serbo Dačić, quello “degli Esteri” europeo Ashton e il capo del governo kosovaro Thaçi (balkaninsight.com)

Lo stallo politico non è un’esclusiva italiana. A un’altra impasse, anche se ben diversa, si assiste in questi giorni dall’altra parte dell’Adriatico: parliamo di Serbia e Kosovo. Martedì sera si è chiuso l’ottavo round di negoziati a Bruxelles, e un accordo non si è trovato. La discussione riguarda soprattutto le municipalità kosovare a maggioranza serba, e le parole del “ministro degli Esteri” dell’Unione europea – Catherine Ashton – suonano come un avvertimento: “Quella degli scorsi giorni è stata l’ultima tornata di negoziati”.

Chi guarda a Bruxelles con un misto di attrazione e timore (di allontanarsi) è Belgrado, candidata a entrare nella Ue. Più indietro Pristina, per ora solo candidata potenziale (e non riconosciuta da 5 Paesi dell’Unione su 27). Se non si sciolgono le controversie con la provincia ribelle, dichiaratasi indipendente nel 2008, il percorso di integrazione europea della Serbia rischia di rallentare. Sembra che al centro del suo “no” a un’intesa con il Kosovo ci sia la richiesta di avere il controllo di polizia e tribunali nei Comuni a maggioranza serba, quelli del nord.

Da neanche un anno a Belgrado il presidente è Tomislav Nikolic, meno europeista del predecessore Boris Tadic. Ma sembra comunque difficile un abbandono della strada che porta alla Ue. Le autorità serbe non vogliono riconoscere il Kosovo come Stato e non vogliono mollare il “sogno” europeo, anche se reso meno affascinante dalla crisi economica continentale. A luglio nell’Unione entra la Croazia, secondo Paese ex-jugoslavo dopo la Slovenia. Quanto aspetteranno ancora i vicini serbi?

FONTI: Osservatorio Balcani e Caucaso, La Voce della Russia, Il Piccolo, Euronews

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Il presidente kosovaro Jahjaga e quello serbo Nikolic (kosovapress.com)

Il presidente kosovaro Atifete Jahjaga e quello serbo Tomislav Nikolic (kosovapress.com)

Il dialogo tra Belgrado e Pristina sembra accelerare. E i serbi che vivono nel nord del Kosovo temono che la (ex) provincia ribelle stia iniziando a vincere la battaglia per l’indipendenza. Oggi a Bruxelles si incontrano i presidenti dei due Stati, anche se uno dei due non riconosce l’altro come tale. A gennaio è stato trovato un accordo sulla gestione dei punti di confine, che fa confluire le entrate doganali in un fondo speciale voluto dall’Unione europea. L’adesione della Serbia alla Ue dipende anche dalla soluzione dei contrasti con il Kosovo, e l’impressione è che Belgrado si sia decisa a risolverli.

Tomislav Nikolic e Atifete Jahjaga, capi di Stato rispettivamente da poco meno di uno e due anni, si vedono a Bruxelles con la mediazione del “ministro degli Esteri” europeo, Catherine Ashton. In campagna elettorale Nikolic era andato a Mitrovica (Kosovo nord) per promettere di cancellare i negoziati con Pristina portati avanti prima della sua vittoria: è proprio sotto la sua presidenza, però, che il dialogo sembra aver ritrovato slancio. Il governo incaricato da Nikolic nel giugno 2012 pare avere come primo obiettivo la stabilità socio-economica, e sa che per poterla raggiungere deve entrare nell’Unione. Per questo tiene una linea morbida sul Kosovo, nonostante i sondaggi dicano che i cittadini appoggiano il “no” alla sua indipendenza più dell’ingresso nella Ue.

Mentre a Bruxelles Belgrado e Pristina si accordavano sulla gestione della frontiera (che per i serbi è solo una “linea di divisione amministrativa”), nel sud della Serbia la polizia rimuoveva un monumento a 27 guerriglieri albanesi uccisi dalle forze governative una decina di anni fa. A questa azione è seguita una serie di attacchi ai cimiteri serbi in Kosovo, attacchi che rafforzano i timori di quei cittadini che si sentono abbandonati da Belgrado. La stessa rimozione del monumento, celebrata con enfasi dal primo ministro Dacic, potrebbe servire a bilanciare le concessioni che il suo governo sta facendo a Pristina. In campagna elettorale il più europeista non era Nikolic, ma il suo predecessore Tadic. Eppure potrebbe essere il primo a sacrificare il Kosovo sull’altare di Bruxelles.

FONTI: Osservatorio Balcani e Caucaso, atlasweb.it, polisblog.it

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La polizia kosovara è stata inviata al confine per bloccare le merci serbe (albeu.com)

Sembrava andare tutto bene. Dopo Karadzic e Mladic, Belgrado è riuscita a catturare – e a consegnare al tribunale de L’Aja – anche Goran Hadzic, il terzo “pesce grosso” ricercato dai giudici olandesi. Se a questo si aggiunge il dialogo con il Kosovo, iniziato lo scorso marzo dopo tre anni di gelo, la strada della Serbia verso l’Unione europea sembrava spianata. Ma proprio quando gli ostacoli più grossi parevano superati, è arrivata la notizia che il presidente Boris Tadic non avrebbe mai voluto sentire: ci sono tensioni al confine tra Serbia e Kosovo.

Intorno alle dieci di ieri sera il governo di Pristina ha inviato l’unità speciale di polizia “Rosa” alla frontiera nord, per applicare il blocco delle merci provenienti dalla (ex) madrepatria, deciso la scorsa settimana. I militari si sono scontrati con i cittadini serbi, ancora in maggioranza nella parte settentrionale del Paese, che si sono riversati nelle strade per fermarli. Un poliziotto sarebbe rimasto colpito da una granata, altri tre avrebbero riportato ferite causate dal lancio di pietre. Difficile dire cosa sia accaduto davvero, ma una cosa è certa: il clima nella regione è peggiorato bruscamente, e Belgrado e Pristina rischiano di allontanarsi di nuovo.

Borislav Stefanovic, capo dei negoziatori serbi con Pristina: "Abbiamo sentito che la polizia kosovara ha sparato alla nostra gente" (politika.rs)

“Vigileremo al fine di evitare ogni violenza, ma non ci sarà alcun ritiro dei militari”, ha detto il ministro degli Interni kosovaro Bajram Rexhepi. “Ogni iniziativa unilaterale rischia di minare completamente il processo di dialogo tra Belgrado e Pristina”, ha avvertito il serbo Tadic. Dalla parte di Belgrado c’è anche Bruxelles: secondo un portavoce di Catherine Ashton, Alto rappresentante per la Politica estera dell’Unione europea “l’operazione compiuta dalle autorità kosovare non è utile e non si è consultata né con l’Ue, né con la comunità internazionale”.

La prima preoccupazione, naturalmente, riguarda le vite umane: le possibilità che la tensione degeneri in violenze pesanti non dovrebbero essere molte, ma il solo fatto che si torni a ipotizzare uno scontro fisico (oltre che diplomatico) tra serbi e kosovari è un grande passo indietro rispetto agli ultimi mesi. Dalla pacificazione tra Serbia e Kosovo non passa solo l’ingresso di Belgrado in Europa: la distensione favorita dal dialogo iniziato a marzo è di aiuto alla stabilità di tutta l’area balcanica. Che vive con ansia questo nuovo strappo nella (fragile) tela dell’ex Jugoslavia.

Fonti: TMNews, repubblica.it, agvnews.it

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Valentin Inzko, Alto rappresentante internazionale per la Bosnia (mojevijesti.ba)

”La Bosnia-Erzegovina vive il momento più difficile dalla fine della guerra”. Parola di Valentin Inzko, Alto rappresentante internazionale per la Bosnia. La miccia che ha fatto esplodere l’allarme tra i vertici dell’Unione europea è il referendum indetto per metà giugno dalla Repubblica serba di Bosnia (RS), una delle due entità in cui è diviso il Paese (l’altra è la federazione croato-musulmana). Un voto per abolire la normativa sulla Corte penale federale e sulla Procura di Stato, competenti sui crimini di guerra residui rispetto a quelli trattati dal Tribunale de L’Aja, e accusate di discriminare i serbi. Un voto che ha valore consultivo, ma che potrebbe avere un peso politico devastante, visti le ripetute minacce di secessione fatte in passato da Milorad Dodik, primo ministro della Rs.

Il primo ministro Milorad Dodik davanti allo stemma della Repubblica serba di Bosnia (vesti-online.com)

“Da quando sono Alto rappresentante – ha detto Inzko – ho sempre goduto del massimo appoggio da parte della comunità internazionale, e tale appoggio potrebbe tradursi anche in una destituzione di Dodik”. Oppure in una cancellazione “dall’alto” del referendum. “Se Inzko deciderà di annullare la consultazione – ha risposto Dodik – saremmo forzati a riconsiderare il nostro atteggiamento nei confronti del potere e la nostra partecipazione ad esso”. Un’eventualità che rischia di compromettere i già sottilissimi equilibri del sistema di potere “tripartito” (serbi, croati e musulmani) creato in Bosnia dagli accordi di Dayton, che posero fine alla guerra nel 1995.

A tamponare la situazione ci ha pensato Catherine Ashton, Alto rappresentante per la Politica estera dell’Unione europea, che è volata a Sarajevo per incontrare Dodik e i membri della presidenza nazionale (quella tripartita, per l’appunto). La Ashton ha ammesso “l’esistenza di talune deficienze nell’attività dei tribunali e delle procure di Bosnia”, e tanto è bastato per far ammorbidire le posizioni dei serbi di Bosnia. “Abbiamo avviato dei contatti con Bruxelles – ha detto Dodik – e accettato, come segnale di buona volontà, di rimandare il referendum”. E se la Ue dovesse rassicurare ulteriormente la Rs, la consultazione potrebbe venire addirittura annullata.

Fonti: Lettera43, TMNews, Peace Reporter

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Il presidente serbo Boris Tadic. Nel 2006 andò a Srebrenica per testimoniare la volontà di Belgrado punire i colpevoli della strage

“Condanniamo nel modo più severo l’eccidio ed esprimiamo profonde condoglianze e scuse alle famiglie delle vittime, in quanto non è stato fatto abbastanza per prevenire la tragedia”. Ci sono voluti 15 anni, ma alla fine le istituzioni serbe hanno chiesto perdono per la strage di Srebrenica. Il documento approvato il 31 marzo dal parlamento non contiene la parola “genocidio”, ma può essere comunque un passo in avanti verso la riconciliazione tra i Paesi dell’area balcanica, oltre che una mossa strategica per accelerare l’ingresso della Serbia nell’Unione europea.

La risoluzione sullo sterminio del 1995 è stata votata da 127 parlamentari su 173. La sostenevano democratici e socialisti, convinti che fosse un atto necessario per avvicinarsi a Bruxelles, mentre la destra avrebbe voluto che nello stesso testo si citassero anche le violenze subite dai serbi. Una “parificazione della memoria” che invece verrà affidata a una seconda dichiarazione, all’esame dell’assemblea nazionale tra pochi giorni. La scelta di parlare di “eccidio” – anziché di “genocidio” – nasce anche da questo quadro politico, che avrebbe impedito di trovare l’accordo su una condanna più netta del massacro. Il compromesso raggiunto dai partiti “europeisti” non convince totalmente né i serbi di Bosnia (“può essere usato dagli altri per dissimulare le proprie colpe”, dice il premier Milorad Dodik) né i familiari delle vittime di Srebrenica, secondo cui “genocidio” è l’unica parola giusta per riferirsi alla strage. Per l’Alto rappresentante Ue Catherine Ashton e il commissario europeo all’Allargamento Stefan Fuele, invece, il voto del 31 marzo è un fatto positivo, “importante per il Paese” e per la “stabilità dell’intera regione balcanica”.

Il cartello di ingresso a Srebrenica (in caratteri cirillici). Il 12 luglio '95 fu uno dei giorni in cui vennero uccisi circa 8 mila musulmani

A Srebrenica, nel luglio 1995, vennero uccisi circa 8 mila musulmani: un “genocidio” per il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, che nel 2007 ha comunque assolto lo Stato serbo da responsabilità dirette. Secondo i giudici de L’Aja, l’eccidio non fu causato da ordini “dall’alto”, ma solo dalla crudeltà di criminali come i leader dei serbi di Bosnia Ratko Mladic e Radovan Karadzic. Il primo, ancora latitante, è l’ostacolo principale sulla strada tra Belgrado e Bruxelles: la sua cattura è una delle condizioni poste dalle istituzioni europee per l’ammissione della Serbia nell’Unione. Il secondo è stato arrestato il 21 luglio 2008 e sta facendo di tutto per rallentare il processo a suo carico, consapevole che il mandato dei magistrati olandesi scadrà nei primi mesi del 2012. Proprio ieri il Tribunale ha respinto la sua richiesta di riprendere le udienze a giugno, fissando la prossima sessione per il 13 aprile. “Vogliamo trovare i responsabili della strage di Srebrenica, in particolare il generale Mladic”, ha ribadito in questi giorni il presidente serbo Boris Tadic, che il 22 dicembre scorso ha presentato la domanda di adesione alla Ue. Se alle parole seguiranno i fatti, Belgrado potrebbe finalmente dimostrare non solo il desiderio di entrare in Europa, ma anche la volontà di affrontare onestamente le ombre del proprio passato.

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Festeggiamenti a Pristina (Kosovo) per l'indipendenza nel febbraio 2008

Come si mantiene la pace in una zona uscita da poco dalla guerra? Per Ivo Josipovic, neo-presidente croato, è essenziale mantenere buoni rapporti con i Paesi vicini. Per Boris Tadic, capo di Stato serbo, un fattore chiave per evitare conflitti armati è… l’esercito. Le dichiarazioni dei leader rispecchiano i contrasti tra i due governi, emersi con evidenza alla cerimonia di insediamento di Josipovic, disertata da Belgrado per protesta contro la presenza del presidente kosovaro Fatmir Sejdiu.

“L’esercito deve sempre avere il posto che gli spetta nella nostra società – ha detto Tadic l’11 febbraio. – La Serbia è un fattore di pace ed è pronta ad assumersi responsabilità nelle missioni di pace nelle varie parti del mondo. Solo su questi presupposti saremo rispettati nella comunità internazionale”. Un esercito forte, quindi, come strumento per far sentire il proprio peso sullo scacchiere europeo.

Tadic e Josipovic, presidenti di Serbia e Croazia, divisi dal riconoscimento dell'autonomia del Kosovo

La pensa diversamente Josipovic, che nel suo primo discorso ufficiale da presidente ha definito una “priorità” i rapporti di buon vicinato con gli Stati confinanti. Se le cose non vanno benissimo con la Serbia, è sempre più forte il legame con Pristina. Il 19 febbraio a Zagabria è stata inaugurata l’ambasciata kosovara: un ulteriore segno di amicizia dopo il riconoscimento dell’indipendenza dichiarata dalla provincia serba (e mai accettata da Belgrado).

All’insediamento di Josipovic era presente il ministro delle Politiche comunitarie Andrea Ronchi. L’Italia è uno dei 65 Paesi che accettano il Kosovo come Stato autonomo, ma allo stesso tempo preme per l’ingresso in Europa della Serbia. L’adesione alla Ue è uno dei pochi obiettivi comuni di Tadic e Josipovic: qualche giorno fa Catherine Ashton, alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza della Ue, ha espresso il desiderio che anche il Kosovo si avvicini a Bruxelles. I destini delle nazioni balcaniche, insomma, si intrecciano sempre più strettamente: dall’atteggiamento di Zagabria e Belgrado dipenderà buona parte della stabilità dell’ex Jugoslavia.

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