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Il presidente serbo Boris Tadic con Milorav Dodik, premier della Repubblica serba di Bosnia

“Se il Kosovo diventa indipendente, non vedo perché non dovremmo esserlo anche noi”. Milorad Dodik, primo ministro della Repubblica serba di Bosnia (RS), parlava così nel settembre 2006. Oggi giura di non volere più la separazione dalla Federazione croato-musulmana (l’altra entità in cui è divisa la Bosnia-Erzegovina), ma sono in molti a non credergli. Il sospetto nasce dalla legge sul referendum approvata in questi giorni dal parlamento dei serbi bosniaci: un provvedimento che potrebbe essere un primo passo verso la secessione da Sarajevo.

La nuova normativa attribuisce il diritto di indire un referendum al presidente della Repubblica, al governo o ad almeno 30 deputati, stabilendo il ricorso obbligatorio alla consultazione popolare in caso di adesione del Paese alla Nato o di modifica degli accordi di pace di Dayton del 1995. Dodik sostiene di voler garantire proprio l’attuazione dei patti che posero fine alla guerra, a suo parere minacciata dal rafforzamento del governo centrale bosniaco voluto dalla comunità internazionale. Se si terrà un referendum, dice il primo ministro, sarà per difendere l’autonomia dei serbi di Bosnia, ma non per promuovere la creazione di un nuovo Stato indipendente.

Valentin Inzko, Alto rappresentante per la Bosnia-Erzegovina per la comunità internazionale

“Siamo pronti a inviare l’esercito per difendere l’integrità della Bosnia”, aveva tuonato a gennaio dalla Croazia Stipe Mesic. La preoccupazione dell’ex presidente è condivisa dai deputati musulmani e croati della RS, che dopo l’approvazione della legge sul referendum hanno abbandonato l’aula, annunciando che ricorreranno al diritto di veto nella Camera dei popoli (il secondo ramo del parlamento) e alla Corte costituzionale. Per loro l’unico obiettivo di Dodik è la scissione dalla Federazione croato-musulmana: non gli credono neanche quando afferma di voler limitare i poteri dell’Alto rappresentante dell’Ohr, l’istituzione internazionale che vigila sull’attuazione di Dayton e che può rimuovere i membri del governo, imporre e revocare normative, congelare le attività dei partiti.

Delle due l’una: o i politici croati e musulmani esagerano con le loro proteste, oppure Dodik mente. Sempre nel 2006, il primo ministro raccontava che ogni volta che tornava da Sarajevo a Banja Luka, capitale della RS, suo figlio gli chiedeva: “Come si sta a Teheran?”. Allora la lotta “contro l’islamizzazione della Bosnia” era uno dei suoi cavalli di battaglia. Oggi, almeno a parole, le sue intenzioni sono cambiate. Tattica politica o sincero ravvedimento?

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Il presidente uscente croato Stipe Mesic e il premier della Repubblica serbia di Bosnia Milorad Dodik

“Se in Bosnia si tenesse un referendum secessionista, come presidente della Croazia non esiterei un attimo a inviare l’esercito”. Stipe Mesic non ama usare giri di parole. Non lo fece nel 2007 con Napolitano, che definì “razzista” per aver parlato di pulizia etnica a proposito del massacro delle foibe. Non lo ha fatto lo scorso 19 gennaio, minacciando l’uso della forza se gli elettori della Repubblica serba di Bosnia (RS) saranno chiamati alle urne per decidere sulla separazione dalla Federazione croato-musulmana, l’altra entità in cui è diviso il Paese. La sua è probabilmente una provocazione, ma il conflitto degli anni ’90 è troppo vicino per non provare comunque una certa inquietudine.

La minaccia di Mesic nasce dall’intenzione di Milorad Dodik, premier della RS, di indire un referendum per difendere l’autonomia dei serbi di Bosnia. Secondo alcuni il vero obiettivo della consultazione sarebbe spingere verso un distacco dallo Stato unitario. “In base agli accordi di Dayton, che nel 1995 posero fine alla guerra – ha detto Mesic – la Croazia è uno dei garanti della sopravvivenza della Bosnia-Erzegovina e la sua disgregazione è inaccettabile”. Dodik sostiene di non volere la scissione, ma uno stop al rafforzamento delle strutture di potere centrali, promosso dalla comunità internazionale per accelerare l’integrazione europea della Bosnia.

Milosevic, Itzebegovic e Tudjman firmano l'accordo di Dayton, che nel 1995 pose fine alla guerra

“Mesic ha iniziato la sua carriera politica con la guerra e ora vuole concluderla con la guerra”, ha replicato Dodik al capo dello Stato croato, ultimo presidente della Repubblica socialista federale di Jugoslavia. Il 18 febbraio Mesic sarà sostituito dal neo-eletto Ivo Josipovic, anch’egli di centrosinistra, ma più morbido in politica estera: pochi giorni fa ha annunciato di voler proporre alla Serbia di ritirare le reciproche denunce di genocidio presentate alla Corte internazionale di giustizia de L’Aja. La “pacificazione” dovrebbe iniziare in occasione dell’insediamento di Josipovic: quel giorno, però, potrebbe mancare proprio il capo dello Stato serbo Boris Tadic, deciso a non presentarsi se all’evento parteciperà anche Fatmir Sejdiu, presidente del Kosovo (la cui indipendenza è stata riconosciuta dalla Croazia ma non da Belgrado).

La mappa politico-diplomatica dei Balcani, insomma, è più intricata che mai: i protagonisti delle guerre degli anni ’90 alternano segnali di distensione a gesti di ostilità. Se Tadic si dice contrario a un referendum che porti alla frammentazione della Bosnia, il ministro degli Esteri serbo Vuk Jemeric getta benzina sul fuoco: “Mesic è un uomo senza alcuna coscienza politica e morale”. Servirà la buona volontà di tutti per far sì che quello del ritorno alle armi continui ad essere una surreale, improbabile ipotesi.

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