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Posts Tagged ‘convivenza’

Zlatko Dizdarevic è un giornalista nato a Belgrado nel 1948. In Italia ha pubblicato anche "Lettere da Sarajevo" (Feltrinelli, 1998)

“Oslobodenje”, in serbo-croato, significa “liberazione”. Non è un caso che a portare questo nome sia uno dei quotidiani storici di Sarajevo, fondato dai partigiani che lottavano contro l’occupazione nazista della Jugoslavia. Purtroppo un’altra generazione di redattori della stessa testata ha dovuto vivere una guerra: ne fa parte Zlatko Dizdarevic, che ha raccontato il dramma degli anni ’90 dal suo interno, mentre si stava compiendo.

Giornale di guerra (Sellerio, 1994) è la descrizione dell’assedio di Sarajevo da parte di chi ho la vissuto. La capitale bosniaca rimase stretta nella morsa del conflitto per quasi quattro anni: “Oslobodenje” continuò a uscire ogni giorno, grazie al lavoro di circa 70 giornalisti musulmani, serbo-bosniaci e croato-bosniaci. A guidarli c’era Dizdarevic, che racconta di essere cresciuto “in una famiglia in cui ci si sentiva prima di tutto jugoslavi”. La redazione del quotidiano, insomma, era uno scrigno in cui si difendeva quella “convivenza delle diversità” che i signori della guerra volevano distruggere: ancora di più, però, era un luogo di resistenza umana, oltre che professionale, all’orrore. Continuando a credere nel loro lavoro, i giornalisti di “Oslobodenje” si ostinavano a credere nella dignità della persona. Viene in mente Se questo è un uomo di Primo Levi: il suo sforzo di ricordarsi i versi di Dante nel lager è il simbolo di tutti i tentativi di opposizione al male da parte dell’uomo. Dizdarevic non è Levi, non ha la sua stessa altezza letteraria, ma le miserie della città assediata sono le stesse dei campi di concentramento: il giornalista ci racconta le lotte per trovare l’acqua, le stragi senza senso, i piccoli gesti di ogni giorno che assumono una valenza enorme, impensabile in tempo di pace. “Considerate se questo è un uomo, che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no”: i versi della poesia che apre il capolavoro di Levi esprimono lo stesso dolore, la stessa rabbia vitale che prova Dizdarevic, che prova ogni uomo colpito da un’atrocità troppo grande per essere accettata.

La sede di "Oslobodenje", distrutta nel luglio '92. Da allora la redazione si trasferì in un rifugio antiatomico

Nel dicembre 1993, a conflitto in corso, il Parlamento europeo conferì a “Oslobodenje” il Premio Sacharov per la libertà di pensiero. Nello stesso anno gli editori Kemal Kurspahic e Gordana Knezevic furono premiati dalla World Press Review per “il loro coraggio, la loro tenacia e la loro dedizione ai principi del giornalismo”. I riconoscimenti internazionali, tuttavia, non sono bastati a diffondere a sufficienza Giornale di guerra anche in Italia, sebbene il libro sia stato tradotto da un personaggio famoso come Adriano Sofri. C’è bisogno di ritrovare un testo del genere, se si vuole capire cosa è successo a pochi chilometri da casa nostra: ce n’è bisogno, soprattutto, se si vuole comprendere quale spinta ha permesso ai Balcani di sopravvivere, quale forza d’animo animava chi ha “combattuto” la guerra schierandosi dalla parte della vita.

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Il ponte di Mostar, progettato dall’architetto Hajrudin e costruito nel 1566 per ordine del sultano Solimano il Magnifico

“Era quel simbolo, e non il manufatto, che si era voluto colpire. La pietra non interessava ai generali croati. Il ponte, difatti, non aveva alcun interesse strategico. Non serviva a portare armi e uomini in prima linea. Esisteva, semplicemente. Era il luogo della nostalgia, il segno dell’appartenenza e dell’alleanza tra mondi che si volevano a tutti i costi separare”.

(Paolo Rumiz, “La Repubblica”, 2 novembre 2003)

Pochi sanno che ci sono due 11 settembre: l’attacco alle Torri Gemelle nel 2001 e il golpe cileno di Pinochet nel 1973. Quasi nessuno sa che si sono due 9 novembre: la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la distruzione del ponte di Mostar nel 1993. Come la dissoluzione della cortina di ferro, le cannonate dei militari croati che spezzarono in due la capitale dell’Erzegovina segnarono la fine di un mondo, di un sistema di valori fondato sulla coesistenza delle diversità che – su scala più ampia – era lo stesso che teneva insieme la Jugoslavia di Tito.

Fino all’esplosione del conflitto, a Mostar musulmani e croati avevano convissuto tranquillamente. I primi occupavano la parte a est dello Stari Most (“vecchio ponte”, da cui prende il nome la città), i secondi quella a ovest. Una separazione pacifica, che con la guerra sarebbe diventata una frattura dolorosa. Aggrediti dai serbi, croati e musulmani iniziarono a combattersi tra di loro, in casa propria, nei luoghi che avevano condiviso per tanto tempo. Nella zona occidentale si trovava l’unico accesso all’acqua potabile: quando i soldati del comandante Slobodan Praljak lo abbatterono, intrappolarono 55 mila musulmani, per lo più donne e bambini. Il ponte sul fiume Neretva, fino ad allora attraversato di notte e di corsa per sfuggire ai cecchini, divenne un muro invalicabile. Gli scontri proseguirono fino al “cessate il fuoco” del 25 febbraio 1994. Il passaggio da una parte all’altra della città rimase proibito fino al 1996.

Alcuni resti dell'artiglieria croata che distrusse il ponte di Mostar il 9 novembre di 17 anni fa

La ricostruzione dello Stari Most è stata ultimata solo sei anni fa: nel frattempo è stato dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’Unesco, così come tutto il centro città. E’ ripresa anche la tradizione dei tuffi nella Neretva. Durante l’anno i ragazzi bosniaci si sfidano gettandosi dal “vecchio ponte”: il 27 luglio si tiene addirittura una gara ufficiale. Pare che ormai partecipino quasi esclusivamente i giovani della parte musulmana. Anche questo è il segno di una “Jugoslavia delle diversità” che esiste ancora, ma che dal 9 novembre 1993 è molto più fragile. Spiegare perché persone che abitavano insieme da decenni presero a uccidersi è un compito difficile, che spetta innanzitutto agli storici. Di sicuro è necessario motivare la rapida frantumazione di quello scenario di convivenza delle differenze che erano Mostar e tutta la Jugoslavia socialista, per elaborare positivamente il lutto della guerra e costruire un futuro sereno per i Balcani.

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