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Posts Tagged ‘criminali’

I carabinieri sono risaliti al bottino anche grazie alle dichiarazioni di due collaboratori di giustizia

Un “tesoro” da un milione di euro. E’ quello ritrovato a Tuzla, in Bosnia Erzegovina, dai carabinieri del nucleo operativo della compagnia Eur. In estate i militari romani avevano sgominato due clan slavi, arrestando 26 persone per traffico internazionale di stupefacenti, falso, riciclaggio di auto di lusso e truffa ai danni dello Stato. Il loro bottino, però, sembrava sparito nel nulla. Fino a ieri.

I valori – 653 mila euro, 24 mila dollari americani e 8 mila yen giapponesi, più oggetti in oro per un peso complessivo di 3 chili – erano nella sede della banca NLB, all’interno di tre cassette di sicurezza intestate al clan Hrustic. Per aprirle, la magistratura italiana ha dovuto richiedere una rogatoria internazionale, recepita dalle autorità bosniache, che hanno eseguito il sequestro delle cassette.

I valori erano in una banca del gruppo NLB, che sponsorizza la Lega Adriatica di Basket

I componenti delle bande scoperte dai carabinieri si procuravano illegalmente la cittadinanza italiana, così da potersi muovere liberamente tra il Belpaese e l’ex Jugoslavia. A questo scopo costituivano imprese fittizie, o risultavano lavoratori di aziende in cui non avevano mai timbrato il cartellino. In alcuni casi obbligavano italiani a riconoscere la paternità dei figli dei membri dell’organizzazione: in questo modo, le (vere) madri potevano chiedere il permesso di soggiorno per i ricongiungimenti familiari.

Un intreccio criminale che durava addirittura dagli anni ’70. Ora il traffico è stato stroncato. Mentre a Tuzla venivano aperte le cassette contenenti il “tesoro”, ad Ardea, in provincia di Roma, veniva arrestato l’ultimo degli indagati. Il bottino è stato recuperato. I latitanti sono stati trovati. E i comuni che avevano concesso la cittadinanza ai banditi possono provvedere a revocarla.

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«L’apertura della cultura bosniaca allo “sguardo dell’altro” non deriva da una mancanza di identità o da una debole coscienza della propria identità, ma dalla disponibilità a riconoscere allo sguardo dell’altro rilevanza e fondatezza».

(Dzevad Karahasan, “Il centro del mondo”)

L’Altro è presente ovunque a Sarajevo. C’è nella Bascarsija, la zona più famosa e forse più turistica, dove i negozianti del luogo si mescolano ai visitatori stranieri. C’è nella Biblioteca Nazionale, dove una targa all’ingresso ricorda il rogo di oltre due milioni di libri operato dai “criminali serbi” durante la guerra. C’è nelle vie del centro, dove si gioca con scacchi giganti spostando le pedine sul lastricato. L’Altro, si potrebbe dire, è Sarajevo: l’incontro con il diverso, doloroso o piacevole che sia, è sempre stata la cifra caratteristica della città.

Cattolici, ortodossi, ebrei, musulmani: quattro religioni monoteiste convivono pacificamente nella capitale bosniaca. Anche le cosiddette “etnie”, che tali non sono perché appartenenti allo stesso ceppo slavo, sono rimaste in pace fino al 1992, quando serbi, croati e musulmani hanno iniziato ad uccidersi tra di loro. L’assedio di Sarajevo, durato quasi quattro anni, stravolse un microcosmo quasi unico al mondo, simbolo fino ad allora di tolleranza e ricchezza intellettuale. Oggi le differenze tra culture non sono sparite, anche se certo sono mescolate meno dolcemente di quanto lo fossero vent’anni fa. Certe ferite non si rimarginano rapidamente: i cimiteri sulle colline circostanti, cosparsi di tombe bianche in quantità impressionante, sono un promemoria costante per viaggiatori e cittadini.

Parlando con gli abitanti, però, si percepisce la convinzione nel guardare avanti, la volontà di pensarsi come un luogo vivo anziché come un teatro di morte. Nessuno, a Sarajevo, vuole rimuovere ciò che è stato: tutti, però, danno l’impressione di voler pensare al presente, ad un benessere che è ancora da costruire ma di cui si intravedono già i primi segni nella dignità con cui è stata ricostruita la città. Gli effetti della guerra si vedono, ma bisogna cercarli: i muri punteggiati dalle pallottole o gli edifici devastati dalle cannonate sono rari, soprattutto nelle zone centrali, che si occidentalizzano ogni giorno di più e vedono crescere il numero di bar e locali alla moda. I veri padroni della capitale sembrano essere i giovani, anche loro tutti diversi e “variopinti”, pronti a portare il Paese sempre più lontano da quell’atrocità che li ha travolti quando erano bambini.

In una delle vie del centro arde la Fiamma Eterna, il “monumento di fuoco” che brucia costantemente per ricordare i caduti del secondo conflitto mondiale. Poco più in là, una targa commemora l’uccisione dell’erede al trono austro-ungarico Francesco Ferdinando, la miccia che fece scoppiare la prima guerra mondiale. Se si vuole davvero “respirare” Sarajevo, però, conviene uscire dalla città, salire sulle colline verdi che la circondano e mettersi seduti, in silenzio. Davanti ai tetti rossi e al fiume Miljacka, alle distese di camposanti e ai minareti delle moschee, si intuisce quella che ci pare l’essenza della capitale bosniaca: la sua capacità di unire culture e religioni in una miscela gioiosa, la sua vocazione ad essere “centro del mondo” grazie all’incontro sempre rinnovato con l’Altro. Forse era proprio questa natura, questa apertura alla condivisione a infastidire i signori della guerra. Un’identità che riunisce le diversità fa paura. Quattro anni di orrore non sono bastati ad annientarla.

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