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Milorad Dodik, presidente della Repubblica serba di Bosnia (foto diIzbor za bolji zivot, http://bit.ly/1cQnChe)

Milorad Dodik guida la Repubblica serba di Bosnia (foto di Izbor za bolji zivot, http://bit.ly/1cQnChe)

Mentre la Repubblica serba di Bosnia celebra il 22° anniversario della sua nascita, nel Paese circolano indiscrezioni sui risultati del censimento di ottobre, attesi soprattutto per quanto riguarda la divisione etnica. Le cifre disponibili al momento però potrebbero essere poco attendibili, magari diffuse per scopi di parte. L’unico dato provvisorio “ufficiale” è quello sulla popolazione totale: quasi tre milioni e 800mila persone.

Il numero coincide con le stime Onu precedenti il censimento, il primo dal 1991. Allora gli abitanti erano quasi quattro milioni e 400mila: passati 22 anni, e passata la guerra, sono circa 600mila in meno. Proprio 22 anni fa nasceva la Repubblica serba di Bosnia, che oggi è una delle entità in cui è diviso il Paese. Milorad Dodik, presidente dal 2010, ha celebrato la ricorrenza sottolineando le aspirazioni autonomiste della regione. Ad ascoltarlo c’era anche il patriarca Irinej, capo della Chiesa ortodossa di Belgrado.

A Sarajevo e dintorni il nazionalismo fa ancora paura, ed è anche per questo che gli altri dati del censimento pubblicati finora sono credibili fino a un certo punto: potrebbero essere usati da chi vuole dimostrare una certa tesi. Un esempio? I gruppi etnici su cui si basa lo Stato post-bellico sono serbi, croati e musulmani: il questionario permetteva anche di non scegliere nessuno dei tre, ma se pochi l’hanno fatto qualcuno potrebbe dire che è perché questo tipo di appartenenza è ancora molto sentito.

Secondo il quotidiano della capitale Dnevni Avaz i musulmani sarebbero circa il 48%, i serbi il 33 e i croati il 15. Sotto la voce “altri” finirebbe il 4%. East Journal spiega bene perché queste cifre sono da prendere con le pinze. I dati ufficiali definitivi potrebbero arrivare nel 2016. Tra chi li aspetta con più trepidazione dovrebbe esserci l’Unione europea, che vuole conoscere meglio la situazione del Paese in vista di un possibile approdo a Bruxelles. Slovenia e Croazia ci sono già, la Serbia potrebbe aggiungersi a breve. La Bosnia dovrà aspettare almeno qualche anno.

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Momcilo Krajisnik e Radovan Karadzic (maszol.ro)

Momcilo Krajisnik e Radovan Karadzic (maszol.ro)

Condannato per crimini contro l’umanità, potrebbe tornare da protagonista sulla scena politica bosniaca. Momcilo Krajisnik è rientrato nel Paese a fine agosto, dopo aver scontato due terzi della pena decisa dai giudici internazionali. Ora si parla di un suo ritorno nella Sds, partito di opposizione nella Repubblica serba di Bosnia (Rs), in cui fu presidente dell’assemblea nazionale tra 1990 e 1992.

Inizialmente il tribunale de L’Aja aveva deciso di farlo stare in carcere 27 anni. In appello sono diventati 20, e a luglio Krajisnik ha potuto uscire per buona condotta. Arrivato a Pale, dove il figlio possiede un distributore di benzina, è stato accolto da oltre 2mila serbi bosniaci festanti. Lui stesso ha ammesso di non capire perché: “Dopo tutto sono un criminale di guerra”, ha detto. Sta di fatto che vessilli e inni nazionalisti serbi hanno accompagnato il suo rientro a casa. Questo mentre il presidente della Rs, Milorad Dodik, è in difficoltà anche a causa della crisi economica. A spaventarlo ora potrebbe aggiungersi un eventuale ritorno in politica di Krajisnik, dato che le leggi del Paese non lo vietano.

Dopo la guerra l’ex presidente dell’assemblea della Rs fu il primo membro serbo della presidenza tripartita bosniaca. Durante il conflitto era il braccio destro di Radovan Karadzic, attualmente sotto processo a L’Aja. Negli anni delle stragi in Serbia comandava Slobodan Milosevic. Allora il portavoce del suo partito era Ivica Dacic, oggi primo ministro a Belgrado. Il passato nei Balcani fa molta fatica a restare tale.

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Proteste attorno al parlamento a Sarajevo (balcanicaucaso.org)

Tanti giovani tra i manifestanti attorno al parlamento a Sarajevo (balcanicaucaso.org)

C’è chi parla di primavera bosniaca, o di indignati di Sarajevo. Dieci giorni fa in città è iniziata una protesta su un tema complesso, i numeri di identificazione dei documenti d’identità, che hanno un impatto molto concreto sulla vita delle persone. Intensità e partecipazione delle manifestazioni davanti al parlamento sono aumentate col passare dei giorni, e fanno pensare che stia succedendo quello che è accaduto in Turchia: da un singolo problema, la distruzione di un parco, scaturisce una contestazione che ha ragioni più vaste e profonde.

Il problema bosniaco è che a febbraio la Corte costituzionale ha sospeso la legge sui nuovi numeri d’identificazione dei documenti, accogliendo un ricorso di Milorad Dodik, presidente della Repubblica Srpska, una delle due entità in cui è diviso il Paese. La sentenza ha bloccato l’assegnazione dei codici ai nuovi nati, e a cosa servano si capisce bene dal caso che ha fatto scoppiare la protesta: una neonata che aveva bisogno di farsi curare all’estero non poteva farlo perché senza il numero d’identificazione non poteva espatriare.

Da qui i presidi davanti al parlamento, con genitori e bambini in passeggino: all’inizio poche decine, poi migliaia, con tanti giovani, soprattutto studenti. L’assemblea nazionale è stata circondata, con l’obiettivo di non far entrare né uscire nessuno finché la questione non fosse risolta. I politici hanno cercato di metterci una toppa, approvando una legge che sanasse provvisoriamente il problema per 180 giorni. Una scelta che ha permesso alla bimba bisognosa di cure di andare all’estero, ma non ha frenato i contestatori, decisi a ottenere di più.

Cosa? Un provvedimento che risolva definitivamente il rebus dei numeri d’identificazione, ma anche la creazione di un fondo pubblico per le terapie dei malati gravi, fondo in cui si chiede ai parlamentari di versare il 30% dello stipendio. Richieste che ricordano davvero gli indignati di altre città, di altri Paesi, in una protesta che sembra già carica di simboli forti: quello scelto dai manifestanti, un ciuccio col pugno chiuso, ma anche il primo ministro che cerca di sfuggire all’assedio uscendo dalla finestra. La primavera meteorologica sta per finire, quella bosniaca forse è appena iniziata.

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Milorad Dodik e Radovan Karadzic (krupljani.ba)

Milorad Dodik e Radovan Karadzic (krupljani.ba)

A volte viene da pensare che Beppe Grillo sarebbe utile fuori dai confini italiani. Dalla sua Genova dovrebbe fare un migliaio di chilometri verso est, fino a Banja Luka, capoluogo della Repubblica serba di Bosnia (una delle entità in cui la guerra ha diviso il Paese). Una volta arrivato, il comico dovrebbe chiedere del presidente Milorad Dodik, in carica dal 2010, e riservare a lui il trattamento che dedica ai politici italiani. Proviamo a spiegare perché.

Dodik è intervenuto al Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia in difesa di Radovan Karadzic, primo presidente della Repubblica serba di Bosnia, tra ’92 e ’96. L’imputato è accusato di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Dodik ha detto di non aver mai assistito a nessuna delle atrocità di cui Karadzic deve rispondere, e soprattutto ha addossato all’allora presidente bosniaco Izetbegovic la responsabilità della guerra nel Paese. Il suo partito avrebbe armato i musulmani contro i serbi, che secondo Dodik si sarebbero semplicemente difesi, bloccando il presunto progetto di uno Stato islamico.

Ora, non c’è dubbio che tutte le parti in causa nel conflitto jugoslavo – serbi, bosniaci, croati – abbiano commesso atrocità. Ma dire che la guerra in Bosnia è scoppiata perché a Sarajevo si sognava un Paese dominato dalla sharìa è folle. Lo è meno ricordare che a Belgrado si pensava alla Grande Serbia. Lo è meno far presente quello che successe a Srebrenica, dove nel luglio 1995 furono massacrate migliaia di musulmani.

È grave che l’attuale presidente della Repubblica serba di Bosnia dica certe cose. Che Karadzic negasse tutto e scaricasse la responsabilità su altri era abbastanza prevedibile, purtroppo. Ma ci sembra inquietante che oggi, nel 2013, la guida in carica di una delle istituzioni bosniache si metta in gioco così per difenderlo. Si sarà capito cosa dovrebbe dire Grillo a Dodik, secondo noi. Non ci vuole fantasia. Quella che lo stesso Dodik sembra avere in abbondanza.

FONTI: Euronews, TMNews

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Valentin Inzko, Alto rappresentante internazionale per la Bosnia (mojevijesti.ba)

”La Bosnia-Erzegovina vive il momento più difficile dalla fine della guerra”. Parola di Valentin Inzko, Alto rappresentante internazionale per la Bosnia. La miccia che ha fatto esplodere l’allarme tra i vertici dell’Unione europea è il referendum indetto per metà giugno dalla Repubblica serba di Bosnia (RS), una delle due entità in cui è diviso il Paese (l’altra è la federazione croato-musulmana). Un voto per abolire la normativa sulla Corte penale federale e sulla Procura di Stato, competenti sui crimini di guerra residui rispetto a quelli trattati dal Tribunale de L’Aja, e accusate di discriminare i serbi. Un voto che ha valore consultivo, ma che potrebbe avere un peso politico devastante, visti le ripetute minacce di secessione fatte in passato da Milorad Dodik, primo ministro della Rs.

Il primo ministro Milorad Dodik davanti allo stemma della Repubblica serba di Bosnia (vesti-online.com)

“Da quando sono Alto rappresentante – ha detto Inzko – ho sempre goduto del massimo appoggio da parte della comunità internazionale, e tale appoggio potrebbe tradursi anche in una destituzione di Dodik”. Oppure in una cancellazione “dall’alto” del referendum. “Se Inzko deciderà di annullare la consultazione – ha risposto Dodik – saremmo forzati a riconsiderare il nostro atteggiamento nei confronti del potere e la nostra partecipazione ad esso”. Un’eventualità che rischia di compromettere i già sottilissimi equilibri del sistema di potere “tripartito” (serbi, croati e musulmani) creato in Bosnia dagli accordi di Dayton, che posero fine alla guerra nel 1995.

A tamponare la situazione ci ha pensato Catherine Ashton, Alto rappresentante per la Politica estera dell’Unione europea, che è volata a Sarajevo per incontrare Dodik e i membri della presidenza nazionale (quella tripartita, per l’appunto). La Ashton ha ammesso “l’esistenza di talune deficienze nell’attività dei tribunali e delle procure di Bosnia”, e tanto è bastato per far ammorbidire le posizioni dei serbi di Bosnia. “Abbiamo avviato dei contatti con Bruxelles – ha detto Dodik – e accettato, come segnale di buona volontà, di rimandare il referendum”. E se la Ue dovesse rassicurare ulteriormente la Rs, la consultazione potrebbe venire addirittura annullata.

Fonti: Lettera43, TMNews, Peace Reporter

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Il Palazzo della Pace all'Aja, sede della Corte internazionale di giustizia

Dodici mesi di Balcani. Dalla questione Kosovo al processo a Karadzic, il secondo semestre del 2010 è stato denso di avvenimenti, concentrati attorno ad un unico epicentro: Belgrado.

Luglio. L’indipendenza del Kosovo è legittima. Lo dice la Corte di giustizia dell’Aja, secondo cui la dichiarazione unilaterale del 17 febbraio 2008 non viola le leggi internazionali. Milorad Dodik, primo ministro della Repubblica serba di Bosnia, esulta: “Se il Kosovo diventa indipendente, non vedo perché non dovremmo esserlo anche noi”.

Agosto. Esplode il caso Fiat Serbia. L’ad Marchionne ha deciso: la monovolume L0 non verrà prodotta a Mirafiori, ma a Kragujevac. Il motivo è semplice: gli operai balcanici ricevono uno stipendio di 400 euro, contro i 1.100-1.200 di chi lavora a Torino. Per i lavoratori serbi è una boccata d’ossigeno. Per quelli italiani una mazzata tremenda.

Vuk Jeremic, ministro degli Esteri serbo, ha annunciato la volontà di dialogare col Kosovo

Settembre. Belgrado accetta di dialogare con Pristina. Le Nazioni Unite adottano una proposta di risoluzione sul Kosovo in cui Bruxelles si propone di mediare tra le parti. L’argomento “indipendenza” resta delicatissimo, ma c’è un fatto nuovo: la disponibilità della Serbia a intrattenere relazioni diplomatiche con la provincia ribelle.

Ottobre. L’estrema destra serba fa tremare l’Europa. Il 10 ottobre gli ultranazionalisti omofobi devastano la capitale in occasione del Gay Pride. Il 14 i “tifosi” più violenti della Nazionale di calcio impediscono lo svolgimento della gara con l’Italia, a Genova. Due avvenimenti che allontanano Belgrado dall’Unione europea: esattamente il risultato sperato dai criminali.

Il presidente serbo Boris Tadic si è scusato per la strage di croati a Vukovar, nel 1991

Novembre. Dopo le scuse per Srebrenica, quelle per Vukovar. Il presidente serbo Tadic chiede perdono ai croati per lo sterminio di 261 persone nell’agosto 1991. Il passato recente balcanico pesa come un macigno: a metà mese Serge Brammertz, procuratore capo del Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia, accusa le autorità serbe di non fare abbastanza per trovare il latitante Ratko Mladic.

Dicembre. Muore il diplomatico statunitense Richard Holbrooke. “Mi promise l’impunità in cambio del mio ritiro a vita privata”: lo dice Radovan Karadzic, il boia di Srebrenica sotto processo all’Aja. Lui stesso ammette che non esistono testimonianze scritte dell’accordo. Il racconto del massacratore può essere anche considerato verosimile. Ma per ora è impossibile da provare.

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Il membro musulmano della presidenza "tripartita" sarà Bakir Izetbegovic, figlio dell'ex presidente Alija

I musulmani scelgono di cambiare. I serbi e i croati no. E’ il riassunto delle elezioni politiche di domenica 3 ottobre in Bosnia. A comporre la presidenza “tripartita” saranno il serbo Nebojsa Radmanovic, il croato Zeljko Komsic e il musulmano Bakir Izetbegovic: ma solo la vittoria di quest’ultimo segna una reale novità.

Alija Izetbegovic è stato presidente della Bosnia dal 1990 al 1996, negli anni più duri per il Paese e per tutta l’ex Jugoslavia. Oggi suo figlio raccoglie l’eredità di Haris Silajdzic, un altro protagonista della guerra degli anni ’90, di posizioni più radicali rispetto al suo successore. L’elezione di un musulmano “moderato” è letta da molti come positiva per la convivenza interetnica: in questa chiave è però meno incoraggiante il successo dell’Alleanza dei socialdemocratici indipendenti (SNSD), la formazione politica di Radmanovic – riconfermato nel suo incarico – e soprattutto di Milorad Dodik, vero leader del partito, che ha respinto l’invito al dialogo di Izetbegovic con un secco: “Non abbiamo niente da discutere”. Decisamente più morbido l’orientamento di Komsic, anche lui al secondo mandato, estraneo agli spiriti nazionalisti cavalcati dai rappresentanti serbi.

Il grande sconfitto è Haris Silajdzic, in carica dal 2006. Con lui la disoccupazione è arrivata al 43%

La vera sorpresa delle votazioni di una settimana fa, comunque, ha il nome di Fahrudin Radoncic. Proprietario di Dnevni Avaz, il quotidiano più venduto in Bosnia, per il suo potere mediatico è già stato soprannominato “il Berlusconi dei Balcani”. Alle urne ha battuto addirittura Silajdzic, raccogliendo il 31% dei consensi. Non abbastanza per sconfiggere Izetbegovic, arrivato al 35%. Ma abbastanza per capire che Sarajevo ha voglia di cambiare.

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Vuk Jeremic, ministro degli Esteri serbo: "Non riconosceremo mai l'indipendenza del Kosovo"

“Se il Kosovo ha ragione, perché noi no?” La Corte di giustizia de L’Aja ha legittimato l’indipendenza della provincia serba: per i giudici la dichiarazione unilaterale del 17 febbraio 2008 non viola le leggi internazionali. Un pronunciamento che esalta le ambizioni di tutti gli autonomisti del mondo. Baschi e ceceni, innanzitutto. Ma anche i serbi bosniaci… e i padani.

“Ci sono molti Stati che hanno problemi di identità territoriale. Una decisione come questa potrebbe essere usata come un precedente”. Vladmir Tchijov, ambasciatore russo presso l’Unione europea, non nasconde le ragioni per cui il suo Paese continua a non riconoscere il Kosovo come entità indipendente, anche dopo la decisione dei magistrati olandesi. Mosca teme di perdere la Cecenia, già Repubblica autonoma della Federazione, e l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud, a status territoriale conteso dall’inizio degli anni ’90.

Mitrovica, Kosovo. A nord del fiume Ibar, maggioranza serba, si protesta. A sud, maggioranza albanese, si festeggia

Opposta la strategia della Spagna, che a sua volta deve guardarsi dalla voglia di autonomia dei Paesi Baschi. “Credo che nessuno con senso di responsabilità possa paragonare questa situazione alla prosperità che viviamo nel nostro Stato e alle regole di convivenza che abbiamo dato a tutti i nostri cittadini”. Oltre ad essere poco eleganti, le parole del vice primo ministro Maria Teresa Fernandez de la Vega parlano chiaro: non provate nemmeno ad usare il Kosovo come grimaldello per staccarvi da Madrid.

Più preoccupanti ancora sono le dichiarazioni di Milorad Dodik, primo ministro della Repubblica serba di Bosnia: “Potremmo adottare subito una dichiarazione di indipendenza che non viola il diritto internazionale”. A febbraio lo stesso Dodik aveva smentito di voler andare alla scissione da Sarajevo. Un’altra giravolta rispetto al 2006, quando diceva: “Se il Kosovo diventa indipendente, non vedo perché non dovremmo esserlo anche noi”. In Italia c’è chi è molto più coerente: “Buone notizie per noi padani”, ha commentato l’europarlamentare leghista Mario Borghezio. Anche un sorriso, in situazioni intricate come questa, non è da buttar via.

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Il presidente serbo Boris Tadic. Nel 2006 andò a Srebrenica per testimoniare la volontà di Belgrado punire i colpevoli della strage

“Condanniamo nel modo più severo l’eccidio ed esprimiamo profonde condoglianze e scuse alle famiglie delle vittime, in quanto non è stato fatto abbastanza per prevenire la tragedia”. Ci sono voluti 15 anni, ma alla fine le istituzioni serbe hanno chiesto perdono per la strage di Srebrenica. Il documento approvato il 31 marzo dal parlamento non contiene la parola “genocidio”, ma può essere comunque un passo in avanti verso la riconciliazione tra i Paesi dell’area balcanica, oltre che una mossa strategica per accelerare l’ingresso della Serbia nell’Unione europea.

La risoluzione sullo sterminio del 1995 è stata votata da 127 parlamentari su 173. La sostenevano democratici e socialisti, convinti che fosse un atto necessario per avvicinarsi a Bruxelles, mentre la destra avrebbe voluto che nello stesso testo si citassero anche le violenze subite dai serbi. Una “parificazione della memoria” che invece verrà affidata a una seconda dichiarazione, all’esame dell’assemblea nazionale tra pochi giorni. La scelta di parlare di “eccidio” – anziché di “genocidio” – nasce anche da questo quadro politico, che avrebbe impedito di trovare l’accordo su una condanna più netta del massacro. Il compromesso raggiunto dai partiti “europeisti” non convince totalmente né i serbi di Bosnia (“può essere usato dagli altri per dissimulare le proprie colpe”, dice il premier Milorad Dodik) né i familiari delle vittime di Srebrenica, secondo cui “genocidio” è l’unica parola giusta per riferirsi alla strage. Per l’Alto rappresentante Ue Catherine Ashton e il commissario europeo all’Allargamento Stefan Fuele, invece, il voto del 31 marzo è un fatto positivo, “importante per il Paese” e per la “stabilità dell’intera regione balcanica”.

Il cartello di ingresso a Srebrenica (in caratteri cirillici). Il 12 luglio '95 fu uno dei giorni in cui vennero uccisi circa 8 mila musulmani

A Srebrenica, nel luglio 1995, vennero uccisi circa 8 mila musulmani: un “genocidio” per il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, che nel 2007 ha comunque assolto lo Stato serbo da responsabilità dirette. Secondo i giudici de L’Aja, l’eccidio non fu causato da ordini “dall’alto”, ma solo dalla crudeltà di criminali come i leader dei serbi di Bosnia Ratko Mladic e Radovan Karadzic. Il primo, ancora latitante, è l’ostacolo principale sulla strada tra Belgrado e Bruxelles: la sua cattura è una delle condizioni poste dalle istituzioni europee per l’ammissione della Serbia nell’Unione. Il secondo è stato arrestato il 21 luglio 2008 e sta facendo di tutto per rallentare il processo a suo carico, consapevole che il mandato dei magistrati olandesi scadrà nei primi mesi del 2012. Proprio ieri il Tribunale ha respinto la sua richiesta di riprendere le udienze a giugno, fissando la prossima sessione per il 13 aprile. “Vogliamo trovare i responsabili della strage di Srebrenica, in particolare il generale Mladic”, ha ribadito in questi giorni il presidente serbo Boris Tadic, che il 22 dicembre scorso ha presentato la domanda di adesione alla Ue. Se alle parole seguiranno i fatti, Belgrado potrebbe finalmente dimostrare non solo il desiderio di entrare in Europa, ma anche la volontà di affrontare onestamente le ombre del proprio passato.

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Il presidente serbo Boris Tadic con Milorav Dodik, premier della Repubblica serba di Bosnia

“Se il Kosovo diventa indipendente, non vedo perché non dovremmo esserlo anche noi”. Milorad Dodik, primo ministro della Repubblica serba di Bosnia (RS), parlava così nel settembre 2006. Oggi giura di non volere più la separazione dalla Federazione croato-musulmana (l’altra entità in cui è divisa la Bosnia-Erzegovina), ma sono in molti a non credergli. Il sospetto nasce dalla legge sul referendum approvata in questi giorni dal parlamento dei serbi bosniaci: un provvedimento che potrebbe essere un primo passo verso la secessione da Sarajevo.

La nuova normativa attribuisce il diritto di indire un referendum al presidente della Repubblica, al governo o ad almeno 30 deputati, stabilendo il ricorso obbligatorio alla consultazione popolare in caso di adesione del Paese alla Nato o di modifica degli accordi di pace di Dayton del 1995. Dodik sostiene di voler garantire proprio l’attuazione dei patti che posero fine alla guerra, a suo parere minacciata dal rafforzamento del governo centrale bosniaco voluto dalla comunità internazionale. Se si terrà un referendum, dice il primo ministro, sarà per difendere l’autonomia dei serbi di Bosnia, ma non per promuovere la creazione di un nuovo Stato indipendente.

Valentin Inzko, Alto rappresentante per la Bosnia-Erzegovina per la comunità internazionale

“Siamo pronti a inviare l’esercito per difendere l’integrità della Bosnia”, aveva tuonato a gennaio dalla Croazia Stipe Mesic. La preoccupazione dell’ex presidente è condivisa dai deputati musulmani e croati della RS, che dopo l’approvazione della legge sul referendum hanno abbandonato l’aula, annunciando che ricorreranno al diritto di veto nella Camera dei popoli (il secondo ramo del parlamento) e alla Corte costituzionale. Per loro l’unico obiettivo di Dodik è la scissione dalla Federazione croato-musulmana: non gli credono neanche quando afferma di voler limitare i poteri dell’Alto rappresentante dell’Ohr, l’istituzione internazionale che vigila sull’attuazione di Dayton e che può rimuovere i membri del governo, imporre e revocare normative, congelare le attività dei partiti.

Delle due l’una: o i politici croati e musulmani esagerano con le loro proteste, oppure Dodik mente. Sempre nel 2006, il primo ministro raccontava che ogni volta che tornava da Sarajevo a Banja Luka, capitale della RS, suo figlio gli chiedeva: “Come si sta a Teheran?”. Allora la lotta “contro l’islamizzazione della Bosnia” era uno dei suoi cavalli di battaglia. Oggi, almeno a parole, le sue intenzioni sono cambiate. Tattica politica o sincero ravvedimento?

Leggi anche: Croazia: “Pronti a prendere le armi”. Solo una provocazione?

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