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I partecipanti al pride montenegrino costretti a sfilare scortati dalla polizia (news.yahoo.com)

I partecipanti al pride montenegrino costretti a sfilare scortati dalla polizia (news.yahoo.com)

Il primo gay pride montenegrino non sembra davvero aver avuto fortuna. A Budva, cittadina costiera, 200 persone hanno cercato di attaccare la quarantina di partecipanti alla manifestazione. Ci sono stati scontri con la polizia e sono stati usati slogan desolanti, da “uccidiamo gli omosessuali” a “Montenegro solo per i sani”.

Quello di oggi era appunto il primo evento di questo tipo nel Paese balcanico. L’organizzatore è il forum Lgbt Progress: ci aveva già provato due anni fa, ma aveva rinunciato lamentando l’assenza di sostegno da parte del governo. Se le autorità ragionano in base al consenso, non c’è da stupirsi: secondo un sondaggio Ipsos, il 70% della popolazione considera malato chi non è eterosessuale, e l’80% pensa che chi è “diverso” debba tenerlo nascosto.

A Budva gli aggressori contrari al pride hanno lanciato sassi, bottiglie e torce contro gli agenti, che cercavano di tenerli lontani dai manifestanti. Il ministro per i Diritti umani aveva detto che il governo avrebbe partecipato con un suo rappresentante, ma non si sa se abbia mantenuto la promessa. I diritti degli omosessuali non sono i soli sotto attacco in Montenegro: l’Unione europea dice di sorvegliare il Paese anche per quanto riguarda il trattamento riservato alle donne e la libertà dei mezzi d’informazione.

Restando al tema dei pride, la vicenda di queste ore fa venire in mente la Serbia, dove le reazioni a manifestazioni come quella di Budva hanno spesso fatto notizia, anche varcando i confini nazionali. A ottobre la polizia vietò l’evento a Belgrado per ragioni di ordine pubblico. Due anni prima gli ultranazionalisti avevano devastato la capitale nella stessa occasione. La Serbia, come il Montenegro, si sta muovendo per entrare nell’Unione europea. Speriamo che sui problemi legati ai diritti Bruxelles usi la stessa rigidità mostrata tante volte in ambito economico.

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Sarebbero mille i trafficanti balcanici sparsi tra Europa e Sudamerica

Milano, 26 febbraio 2008. I poliziotti della Squadra Mobile trovano 90 chili di cocaina in una casa di via Washington. Padova, 22 giugno 2009. I carabinieri fermano un tir che trasporta 420 chili di coca. Livorno, 5 settembre 2009. Nel parcheggio di un supermercato viene perquisita un’auto con dentro 14 chili di cocaina. I tre sequestri hanno un denominatore comune: coinvolgono tutti persone provenienti dall’ex Jugoslavia.

La mafia balcanica è la nuova potenza nel traffico di coca tra Europa e Sudamerica. Serbi, sloveni, montenegrini fanno da intermediari tra i “fornitori” colombiani, uruguayani e argentini e i compratori del vecchio continente. Servendosi dei trafficanti slavi, gli acquirenti europei evitano di versare anticipi ai produttori sudamericani e di rischiare di perdere la merce durante il trasporto. La droga può fare scalo in Africa oppure arrivare direttamente nei Balcani, per poi essere venduta alla criminalità organizzata italiana, austriaca, tedesca, spagnola, inglese.

Un sequestro di cocaina da parte dei carabinieri

Dragan Gacesa, capo della cellula milanese di via Washington, è stato arrestato nello scorso gennaio in Toscana. A Tirrenia, in provincia di Pisa, si trova il “deposito” in cui era stoccata buona parte della coca: una villetta sul mare. I carabinieri hanno sequestrato 530 chili di droga alla banda criminale, che vendeva solo all’ingrosso e aveva posizionato i suoi magazzini vicino ai porti di arrivo dei carichi (Livorno, La Spezia), ma lontano dai luoghi di vendita. Una strategia che probabilmente viene adottata da molti altri in Italia e in Europa.

I trafficanti balcanici spesso hanno un passato nei servizi segreti o nei gruppi paramilitari che agivano durante la guerra, come le Tigri di Arkan. La disciplina che si danno è da soldati professionisti: durante il “lavoro” non consumano droga, non bevono, non frequentano donne. La loro storia è stata raccontata sul Corriere della Sera da Gianni Santucci. I loro crimini sembrano destinati a riempire sempre di più le pagine dei giornali.

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Diana Jenkins, 36 anni. Il suo vero nome è Sanela Catic

“Da profuga bosniaca a protagonista dell’alta finanza”. Repubblica riassume così la storia di Diana Jenkins, 36 anni, moglie del banchiere londinese Riger Jenkins, scappata a piedi da Sarajevo durante la guerra. Diana ha perso un fratello nel conflitto jugoslavo, da cui è fuggita in Croazia e da lì in Inghilterra: qui ha fatto la sguattera e la cameriera, prima di incontrare l’uomo d’affari che sarebbe diventato suo marito.

“Non fu bello, ma non sono ancora pronta per raccontare come andò”, dice oggi la Jenkins, vero nome Sanela Catic, sulla fuga dalla Bosnia. “A Londra parlavo a malapena la lingua. Mi aggiravo per le strade in cerca di qualcosa da mangiare. Pensavo solo a sopravvivere. Certe settimane mangiavo solo una tavoletta di Toblerone”. La vita di Diana cambia quando, trovato un lavoro, si iscrive in una palestra alla moda. Lì conosce Riger Jenkins, pezzo grosso di Barclays, una delle maggiori banche d’Europa. I due si innamorano e si sposano.

Diana Jenkins con lo stilista Roberto Cavalli

Durante una vacanza in Costa Smeralda, la Jenkins diventa amica della moglie dello sceicco del Qatar. L’affiatamento produce i suoi frutti: Diana convince l’emiro a investire nella banca del marito, in piena crisi finanziaria. Gli 8 milioni che arrivano dall’Arabia salvano la Barclays e fanno diventare Riger Jenkins il più ricco banchiere di Londra. Nel frattempo Diana fonda la Irnis Catic Foundation, intitolata al fratello scomparso, per sovvenzionare le attrezzature mediche dell’Università di Sarajevo.

Qualcosa però sta per rompersi. La Jenkins non si trova bene nell’alta società londinese, che sembra snobbarla. “Mi fanno sentire inutile, vuota, perfino sporca”, dichiara qualche settimana fa. “Come se fossi stata scelta da mio marito su un catalogo di ragazze dell’est”. Alle parole seguono i fatti: Diana scappa a Los Angeles, in California, insieme al marito e ai due figli. Lì si dedicherà alla Sanela Diana Jenkins International Justice Clinic, che ha fondato per dare appoggio legale e politico al programma per i diritti umani dell’Università della California. Nel tempo libero frequenterà i suoi amici vip, da George Clooney a Elton John. Un “lieto fine” americano per una vicenda straordinaria, che può riservarci ancora molte sorprese.

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Luna Mijovic e Mirjana Karanovic, protagoniste del film "Grbavica"

“Grbavica”, ovvero “donna che porta un peso”. Grbavica, un quartiere di Sarajevo, teatro di stupri e torture durante la guerra. “Grbavica”, un film sulla vita che nasce dall’orrore.

“Il segreto di Esma” (titolo italiano della pellicola) ha vinto l’Orso d’Oro a Berlino nel 2005. E’ la storia di una madre che nasconde alla figlia di averla partorita dopo uno stupro etnico. Un racconto delicato, doloroso ma non cruento, che fa intuire una tragedia collettiva attraverso la sofferenza di un’adolescente. Durante l’assedio di Sarajevo furono torturate e violentate centinaia, forse migliaia di donne. Più che sul loro dramma, però, il film si concentra su quello che è successo dopo, quando la vita è tornata alla “normalità” e tante madri hanno dovuto crescere bambini nati da abusi sessuali.

La regista Jasmila Zbanic

Sara (Luna Mijovic) ha 15 anni e crede che suo padre sia caduto in guerra. Esma (Mirjana Karanovic) vuole difendere sua figlia dal passato, da un dolore troppo grande per essere detto. L’affetto che le lega vacilla quando Sara scopre la verità, ma è l’unica forza in grado di tenerle insieme. Il rapporto tra le due protagoniste, il loro scontrarsi a causa di un’atrocità per cui non hanno colpa, che non dipende da loro, è il vero centro della narrazione. “E’ un film sull’amore impuro, mischiato con l’odio, il disgusto, la disperazione”. La regista Jasmila Zbanic ha 34 anni: ne aveva 17 quando è iniziato l’assedio di Sarajevo, che ha vissuto dal centro della città. “Eravamo senza cibo, senza acqua, senza riscaldamento”, ha raccontato il 27 ottobre scorso alla Stampa. “Ora dobbiamo dare alla nuova generazione la verità. E dovremo imparare come amare l’altro, proprio per la sua alterità”.

L’amore dopo la crudeltà, la vita dopo i massacri. Può sembrare retorica: è la forza di volontà di chi vuole guardare avanti, senza per questo dimenticare. Nello spirito di “Grbavica”, nella sensibilità della Zbanic, c’è il senso di quello che vorremmo raccontarvi: la determinazione e l’umanità con cui chi ha sofferto cerca di tornare a vivere.

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