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Il museo archeologico di Skopje, Macedonia (foto Dennis Jarvis, http://bit.ly/1o0kLtT)

Il museo archeologico di Skopje, capitale macedone (foto Dennis Jarvis, http://bit.ly/1o0kLtT)

Una democrazia debole con forti divisioni etniche e che “promette” vantaggi da paradiso fiscale e il divieto costituzionale di istituire i matrimoni gay. È il ritratto della Macedonia che emerge dalle notizie delle ultime settimane, con accuse pesanti mosse al Paese da due importanti organizzazioni internazionali: OSCE e Freedom House.

Iniziamo da quest’ultima, ong statunitense che ogni anno mette a punto un rapporto sullo stato di salute della democrazia nel mondo. Poche settimane fa ha declassato quella di Skopje da “semi-consolidata” a “di transizione o regime ibrido”. Si parla di aumento della corruzione e diminuzione dell’indipendenza dei media. Ancora più recente il report dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, che denuncia la “polarizzazione etnica” tra i macedoni in senso stretto e quelli di etnia albanese (che sono circa il 25%).

Dodici anni fa le forze regolari combatterono alcuni mesi l’Esercito di Liberazione Nazionale, un gruppo militare che avrebbe voluto la creazione della cosiddetta Grande Albania. Oggi la situazione è diversa, ma la convivenza non è facile. A inizio mese migliaia di persone sono scese in piazza contro la condanna di sei concittadini di etnia albanese per l’omicidio di cinque “macedoni macedoni”. Ci sono stati arresti, feriti e la polizia ha usato lacrimogeni e getti d’acqua. A maggio erano stati manifestanti dell’altra componente a scontrarsi con gli agenti, dopo un altro omicidio commesso da una persona di etnia albanese.

Questo mentre il parlamento approva modifiche costituzionali per consentire la nascita di zone “tax free”, sostenuto dal governo di destra confermato pochi mesi fa alle elezioni. Al possibile aumento di spazi per gli evasori si accompagna l’ipotesi di ridurre quelli per gli omosessuali: l’assemblea nazionale di Skopje si è espressa a favore dell’inserimento in Costituzione della definizione di matrimonio come “unione tra uomo e donna”. La stessa cosa è passata l’anno scorso con un referendum in Croazia, che però pochi giorni fa ha approvato una legge che riconosce le unioni civili.

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La prefazione del libro è del giornalista de "La Repubblica" Paolo Rumiz

L’hanno chiamata guerra etnica. Guerra religiosa. Guerra fratricida. Ma nessuno ha mai parlato di “guerra psichiatrica” per riferirsi al conflitto balcanico degli anni ’90. Lo fanno Angelo Lallo, collaboratore del Centro studi e ricerche sulla salute mentale di Merano, e Lorenzo Toresini, direttore dello stesso Centro studi: Il tunnel di Sarajevo (Ediciclo Editore, 2004) raccoglie i loro scritti e quelli di altri studiosi, per spiegare le violenze avvenute oltre Adriatico in una chiave molto particolare.

Perché parlare di guerra psichiatrica? In primo luogo perché molti protagonisti dei massacri erano psichiatri: uno su tutti, Radovan Karadzic, il boia di Srebrenica, attualmente sotto processo a L’Aja per genocidio e crimini contro l’umanità. In secondo luogo perché la guerra dei Balcani aveva il primo scopo, in parte raggiunto, di dividere ciò che era stato unito fino ad allora: persone di religione diversa, o appartenenti ad “etnie” (o presunte tali) diverse, che avevano sempre convissuto pacificamente. E per farlo, lo strumento principe era la pulizia etnica, lo sterminio del “diverso”, spesso giustificato dai paradigmi della peggiore psichiatria sociale. E dire che – scrive Toresini – “la psichiatria vede nel suo DNA primigenio i principi di tolleranza, disponibilità e apertura nei confronti di chi, diverso, non meritava più la punizione della sofferenza nelle segrete”: ma la psichiatria, come ogni strumento, può diventare mortale se ne se fa un uso distorto e volto a seminare odio.

Lo psichiatra e massacratore Radovan Karadzic: a sinistra, dopo la cattura nel 2008, a destra, con la moglie nel 1994

Il libro contiene i contributi di persone che hanno lavorato nel cuore di Sarajevo assediata (Mevlida Serdarevic, direttore del Museo ebraico; Ajnija Omanic, direttore della facoltà di Medicina), di professionisti che hanno lavorato nella stessa clinica di Karadzic prima della guerra (Slobodan Loga e Ismet Ceric) e altri ancora: tutto per dimostrare come l’ottica psichiatrica sia quella giusta per valutare il conflitto dei Balcani. Non ci sentiamo di sposare in toto questa tesi, ma una cosa è certa: qualunque interpretazione si allontani da quelle, superficiali e fuorvianti, che vedono nella guerra degli anni ’90 esclusivamente una guerra di religione, o peggio ancora una guerra etnica, contribuisce ad arricchire la riflessione su un dramma le cui vere ragioni sono ancora tutte da chiarire.

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«L’apertura della cultura bosniaca allo “sguardo dell’altro” non deriva da una mancanza di identità o da una debole coscienza della propria identità, ma dalla disponibilità a riconoscere allo sguardo dell’altro rilevanza e fondatezza».

(Dzevad Karahasan, “Il centro del mondo”)

L’Altro è presente ovunque a Sarajevo. C’è nella Bascarsija, la zona più famosa e forse più turistica, dove i negozianti del luogo si mescolano ai visitatori stranieri. C’è nella Biblioteca Nazionale, dove una targa all’ingresso ricorda il rogo di oltre due milioni di libri operato dai “criminali serbi” durante la guerra. C’è nelle vie del centro, dove si gioca con scacchi giganti spostando le pedine sul lastricato. L’Altro, si potrebbe dire, è Sarajevo: l’incontro con il diverso, doloroso o piacevole che sia, è sempre stata la cifra caratteristica della città.

Cattolici, ortodossi, ebrei, musulmani: quattro religioni monoteiste convivono pacificamente nella capitale bosniaca. Anche le cosiddette “etnie”, che tali non sono perché appartenenti allo stesso ceppo slavo, sono rimaste in pace fino al 1992, quando serbi, croati e musulmani hanno iniziato ad uccidersi tra di loro. L’assedio di Sarajevo, durato quasi quattro anni, stravolse un microcosmo quasi unico al mondo, simbolo fino ad allora di tolleranza e ricchezza intellettuale. Oggi le differenze tra culture non sono sparite, anche se certo sono mescolate meno dolcemente di quanto lo fossero vent’anni fa. Certe ferite non si rimarginano rapidamente: i cimiteri sulle colline circostanti, cosparsi di tombe bianche in quantità impressionante, sono un promemoria costante per viaggiatori e cittadini.

Parlando con gli abitanti, però, si percepisce la convinzione nel guardare avanti, la volontà di pensarsi come un luogo vivo anziché come un teatro di morte. Nessuno, a Sarajevo, vuole rimuovere ciò che è stato: tutti, però, danno l’impressione di voler pensare al presente, ad un benessere che è ancora da costruire ma di cui si intravedono già i primi segni nella dignità con cui è stata ricostruita la città. Gli effetti della guerra si vedono, ma bisogna cercarli: i muri punteggiati dalle pallottole o gli edifici devastati dalle cannonate sono rari, soprattutto nelle zone centrali, che si occidentalizzano ogni giorno di più e vedono crescere il numero di bar e locali alla moda. I veri padroni della capitale sembrano essere i giovani, anche loro tutti diversi e “variopinti”, pronti a portare il Paese sempre più lontano da quell’atrocità che li ha travolti quando erano bambini.

In una delle vie del centro arde la Fiamma Eterna, il “monumento di fuoco” che brucia costantemente per ricordare i caduti del secondo conflitto mondiale. Poco più in là, una targa commemora l’uccisione dell’erede al trono austro-ungarico Francesco Ferdinando, la miccia che fece scoppiare la prima guerra mondiale. Se si vuole davvero “respirare” Sarajevo, però, conviene uscire dalla città, salire sulle colline verdi che la circondano e mettersi seduti, in silenzio. Davanti ai tetti rossi e al fiume Miljacka, alle distese di camposanti e ai minareti delle moschee, si intuisce quella che ci pare l’essenza della capitale bosniaca: la sua capacità di unire culture e religioni in una miscela gioiosa, la sua vocazione ad essere “centro del mondo” grazie all’incontro sempre rinnovato con l’Altro. Forse era proprio questa natura, questa apertura alla condivisione a infastidire i signori della guerra. Un’identità che riunisce le diversità fa paura. Quattro anni di orrore non sono bastati ad annientarla.

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Il ponte sulla Drina oggi. E' stato costruito nel '500

“L’esistenza nella cittadina si faceva sempre più vivace, sembrava sempre più ricca e ordinata e assumeva un passo uniforme e un equilibrio fino ad allora sconosciuto, quell’equilibrio cui ovunque e da sempre tende ogni cosa ma che viene raggiunto solo raramente, parzialmente e per poco tempo”.

“Il ponte sulla Drina” è l’opera più famosa di Ivo Andric, premio Nobel per la letteratura nel 1961. Lo scrittore racconta la storia della cittadina bosniaca di Visegrad, divisa in due dal fiume Drina e unita dal ponte che collega le due sponde. Questo essere frammentata e congiunta insieme è la caratteristica fondamentale della città, così come dell’intera ex Jugoslavia. I bosniaci in particolare sono la popolazione balcanica più eterogenea, anche dopo una guerra che ha sterminato intere famiglie o le ha costrette a fuggire all’estero solo perché appartenevano all’etnia “sbagliata”.

La statua di Andric a Belgrado

Il ponte sulla Drina è il filo conduttore della narrazione, che ci trasporta attraverso secoli di storia jugoslava. Sul ponte si intrecciano i commerci tra Oriente e Occidente, ai suoi piedi si fermano i viaggiatori che riposano nella locanda. Dal ponte partono le storie dei tanti personaggi del libro: mille vicende particolari che si intrecciano a comporre una trama universale, quella delle genti balcaniche, in continuo mutamento e contaminazione con altri popoli. Andric descrive benissimo questo incontro tra culture: uno scambio costante che è al tempo stesso ricchezza e condanna, fonte di crescita e di conflitto. Uno scambio che non si interrompe mai, neanche quando degenera e si trasforma in scontro violento.

“Il ponte sulla Drina” è uno splendido romanzo storico. Le vicende di Visegrad, piccolo centro al confine tra Bosnia e Serbia, sono narrate con leggerezza e profondità. L’umanità dei personaggi fa appassionare al racconto, vero affresco collettivo tracciato con mano sapiente da Andric. La sua penna ci conduce al cuore dell’ex Jugoslavia, avvicinandoci all’essenza dei popoli che la abitano.


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