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Posts Tagged ‘famiglia’

Il Papa al suo arrivo a Zagabria. Il primo alla sua destra è il presidente croato Ivo Josipovic (magisterobenedettoxvi.blospot.com)

“Mostrate con la vostra testimonianza di vita che è possibile amare, come Cristo, senza riserve!”. È uno dei passaggi dell’omelia tenuta da Benedetto XVI nel grande Ippodromo di Zagabria, davanti a centinaia di migliaia di fedeli. Il Papa è stato in visita in Croazia nel weekend del 4 e 5 giugno: ha parlato molto di famiglia (domenica era la Giornata nazionale delle famiglie cattoliche croate), ma anche di Unione europea. In un momento cruciale per il Paese balcanico.

“Non cedete a quella mentalità secolarizzata che propone la convivenza come preparatoria o addirittura sostitutiva del matrimonio – ha detto il Pontefice. – Non bisogna aver timore di impegnarsi per un’altra persona. Care famiglie, gioite per la paternità e la maternità!” Il rischio, ha continuato papa Ratzinger, è che si riduca l’amore “a emozione sentimentale e a soddisfazione di pulsioni istintive, senza impegnarsi a costruire legami duraturi e senza apertura alla vita. Siamo chiamati a contrastare questa mentalità”. Immancabile il richiamo alla politica: servono “provvedimenti legislativi che sostengano le famiglie nel compito di generare ed educare i figli”, ha ricordato Benedetto XVI.

Durante la guerra, nel settembre 1994, papà Wojtyla celebrò una messa all'Ippodromo di Zagabria davanti a un milione di persone (balcanicaucaso.org)

Se queste parole non spostano di un centimetro le posizioni (rigidamente conservatrici) della Chiesa sulla famiglia, più interessanti sono le considerazioni sull’avvicinamento tra Zagabria e Bruxelles. Riflessioni non contenute nell’omelia, ma che dicono molto del significato della visita del Pontefice oltrefrontiera. “Alla vigilia della piena integrazione della Croazia nell’Unione Europea – ha spiegato il Papa – la storia passata e recente di questo Paese può costituire un motivo di riflessione per tutti gli altri popoli del Continente aiutando ciascuno di essi, e l’intera compagine, a conservare e a ravvivare l’inestimabile patrimonio comune di valori umani e cristiani”. L’ingresso in Europa, insomma, è “logico, giusto e necessario”, anche se restano criticabili “il forte centralismo burocratico e l’astratta cultura razionalista” delle istituzioni europee. Tradotto: è positivo che la Croazia entri nella Ue, ma a patto che quest’ultima sia sempre di più portatrice di valori cristiani, che sono le vere fondamenta – nell’ottica della Chiesa – dell’Europa stessa.

Ma a che punto è la procedura di adesione di Zagabria? Fonti diplomatiche sostengono che i negoziati potrebbero concludersi addirittura entro questa settimana: ottenuto l’ok della Commissione europea, la palla passerebbe al Consiglio europeo, ovvero ai 27 capi di Stato o di governo dei Paesi membri, che si riuniranno il 23 e il 24 giugno. Se anche da loro arrivasse la “luce verde”, la Croazia potrebbe entrare ufficialmente nell’Unione nel luglio 2013. Naturalmente non è detto che le cose vadano così: dei 35 capitoli negoziali affrontati da Zagabria e dai Commissari europei, ne restano aperti quattro, riguardanti “sistema giudiziario e diritti fondamentali”, “concorrenza”, “disposizioni finanziarie e di budget” e generiche “altre questioni”. Avere il via libera su questi temi significherebbe dire che il Paese ha già un ordinamento allineato ai principi fondamentali della Ue: ma anche se le cose dovessero dilungarsi, la strada verso Bruxelles sembra comunque spianata.

L’Europa in cui entrerà la Croazia sarà “più cristiana” di quella attuale? Difficile dirlo. Riferendosi ai Paesi con cui si è scontrata durante la guerra degli anni ‘90, il presidente Ivo Josipovic ha detto: “Basandosi sulle sue radici cristiane, la Croazia moderna vuole essere generosa nel perdonare i suoi vicini”. Su questo concetto di cristianità, almeno a parole, tutti sono d’accordo. Di fatto, Bruxelles e Zagabria sembrano più vicine di quanto lo siano oggi Bruxelles e Roma.

Fonti: ilsole24ore.it, TMNews, Adnkronos

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Laura Halilovic è nata a Torino nel 1989. Ha la cittadinanza bosniaca, ma non è ancora riuscita ad ottenere quella italiana

“Mi chiamo Laura Halilovic. Sono nata il 22 novembre 1989”. Ventun anni e una passione: quella per il cinema. Ventun anni e un’etichetta pesante da portare addosso: quella di rom. Nel 2009 la Rai hai trasmesso Io, la mia famiglia rom e Woody Allen, il primo documentario di Laura, che oggi fa l’assistente alla regia di Ricky Tognazzi per una fiction. E prepara il suo primo film.

“Il primo giorno di scuola ero entusiasta. Volevo conoscere i compagni di classe. Poi sotto voce sentii i loro commenti: ‘Ci mancava solo la zingara’, dicevano”. La famiglia di Laura arriva da Banja Luka, Bosnia, durante la guerra. Si stabilisce nel campo nomadi di via Germagnano, nella periferia torinese. Poi ottiene una casa popolare nel quartiere di Falchera: cento metri quadri per nove persone.

“Sogno di fare cinema da quando avevo nove anni”. Galeotto fu Manhattan: il capolavoro di Woody Allen incuriosisce la piccola Laura, che deve rimboccarsi le maniche per realizzare i suoi sogni. “Non ho avuto la possibilità di studiare oltre la terza media. Quello che so sul cinema l’ho imparato direttamente facendolo e guardando molti film”. Nel 2007 il suo primo cortometraggio, Illusione, vince il festival Sotto18. Nel 2009 Io, la mia famiglia rom e Woody Allen riceve il Gran Premio Urti (Università Radiofonica e Televisiva Internazionale) per il documentario d’autore.

“Non consideravo che i rom fossero uguali a noi”. “Alla fine sono gente come noi”. “Mi ha fatto capire che non sono tutti uguali, tutti colpevoli”. Le risposte al questionario compilato dagli studenti delle scuole superiori piemontesi parlano chiaro: chi vede il documentario di Laura guarda con meno diffidenza all’etnia più emarginata d’Italia. Profumo di pesche, il film in progettazione, è una storia d’amore fra una giovane rom e un cuoco Gagè, ovvero non rom. Un amore che va oltre gli stereotipi. E che può aiutare a superarli.

Leggi anche: Dijana Pavlovic, quanto è dura diventare una rom italiana

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Il primo è considerato da molti il miglior giocatore di sempre. Il secondo è il regista balcanico più famoso al mondo. Maradona di Emir Kusturica è un documentario passionale e coinvolgente. Presentato nel 2008 al Festival di Cannes, è rimasto poco nelle sale italiane ed è forse una delle produzioni meno conosciute del regista serbo. Un peccato per gli amanti del cinema, del calcio, delle grandi storie di vita.

Eccentrici, discussi, unici: Kusturica e Maradona si sono incontrati nel 2005

Dalla droga al pallone, dalla famiglia alla politica, Maradona si confessa sinceramente in una sorta di lunghissima intervista, ambientata tra Belgrado, Buenos Aires e Napoli. Ai video delle sue prodezze calcistiche si accompagnano gli abbracci con Fidel Castro e Hugo Chavez. Nelle sue parole l’affetto per le figlie si confonde col dolore della tossicodipendenza. Il risultato è un mix esplosivo, che affascina anche chi non sa distinguere tra un fuorigioco e un calcio d’angolo. L’energia travolgente di Diego, creatrice e distruttiva allo stesso tempo, investe lo spettatore e lo immerge nel dramma di un personaggio eccezionale, padrone e schiavo di un potere quasi impossibile da controllare.

Alcuni sostengono che il vero protagonista della pellicola non sia Maradona. Kusturica non si nasconde ma partecipa al racconto, dialoga con il Pibe de Oro, traccia improbabili paragoni tra lui e i personaggi dei suoi film. Forse la narrazione sarebbe stata più fluida senza la sua continua presenza, ma era impensabile che l’ego del regista di Sarajevo – notoriamente smisurato – non emergesse in una storia come questa. Tutto è eccessivo in Maradona: la classe del calciatore, la fragilità dell’uomo, la retorica del rivoluzionario, l’amore dei tifosi che ne fanno un Dio. “Io sono il cinema” ha detto una volta Kusturica. “Io sono il calcio” potrebbe dire a maggior ragione Diego. Due esagerazioni che vale la pena di vivere.

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Marco Luchetta, Alessandro Ota e Dario D'Angelo

Mostar, 28 gennaio 1994. Marco Luchetta, Alessandro Ota e Dario D’Angelo sono in Bosnia per la Rai. Devono girare un servizio per il Tg1 sui “bambini senza nome”, nati dagli stupri etnici o figli di genitori dispersi in guerra. Hanno scoperto una cantina dove da mesi dormono decine di persone, tra cui molti bambini. Mentre sono ancora in strada, vengono colpiti da una granata: muoiono sul colpo. Con loro c’è uno dei bimbi del rifugio, Zlatko. I corpi dei tre inviati gli fanno da scudo. Oggi è ancora vivo.

Gli occhi di Zlatko, il bimbo che sopravvisse all'esplosione di 16 anni fa

Marco Luchetta, 42 anni, faceva il giornalista. Si era fatto conoscere alla “Gazzetta dello Sport”, poi era passato alla Rai regionale del Friuli-Venezia Giulia. I tg nazionali avevano visto comparire il suo volto con l’inizio della guerra nei Balcani. Alessandro Ota, 37 anni, faceva l’operatore. Era entrato alla Rai nel 1979, poi aveva partecipato alla realizzazione di film per il cinema e per la tv. Quando scoppiò la guerra, gli venne offerto un posto da giornalista nel tg sloveno: rifiutò per amore della telecamera. Dario D’Angelo, 47 anni, faceva l’assistente di ripresa televisiva. Prima di essere assunto in Rai aveva lavorato in fabbrica: si era diplomato come perito in telecomunicazioni studiando alle scuole serali. Tutti e tre erano nati in provincia di Trieste. Tutti e tre persero la vita esattamente sedici anni fa.

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi pochi mesi dopo la strage di Mostar

Nei mesi successivi alla tragedia si è indagato per chiarire se l’esplosione fosse stata una disgrazia oppure un attentato per eliminare dei testimoni scomodi, ma l’inchiesta è stata archiviata. “L’unica conclusione – ha detto nel 2004 Daniela Schifani, moglie di Luchetta – è che sono stati vittima di un bombardamento, e quella zona era bombardata spessissimo. Sicuramente chi ha lanciato la granata sapeva che c’era la stampa: per arrivare là Marco, Alessandro e Dario avevano attraversato vari check-point con un blindato Onu”.

Dopo la morte dei tre inviati è nata una onlus intitolata a loro e a Miran Hrovatin, operatore triestino ucciso in Somalia il 20 marzo 1994 insieme alla giornalista del Tg3 Ilaria Alpi. La Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin aiuta i bambini che vivono in zone di conflitto e sono affetti da gravi forme tumorali o necessitano di un intervento chirurgico non fattibile in patria. Insieme alle loro famiglie, i piccoli vengono ospitati e curati in Italia, dove sono portati a spese della Fondazione. “Nessun bambino deve più morire per una guerra”: e se a dirlo è Zlatko, il sopravvissuto del 28 gennaio 1994, crederci diventa davvero un dovere.

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