Feeds:
Articoli
Commenti

Posts Tagged ‘genocidio’

Il tribunale internazionale dell'Aja per l'ex Jugoslavia (foto Penn State, http://bit.ly/18HnU5u)

Il tribunale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia (foto Penn State, http://bit.ly/18HnU5u)

Continuano ad accusarsi a vicenda di genocidio, ma dicono di sperare che questo non incrini i loro rapporti. Le autorità serbe e croate hanno dato vita a una singolare conferenza stampa congiunta, che sembra dire molto su passato, presente e futuro dei due Paesi, ma anche dell’intera area ex jugoslava.

A Belgrado i giornalisti hanno incontrato il vice-capo del governo di Belgrado, Aleksandar Vucic, e quella di Zagabria, Vesna Pusic. I due hanno annunciato che non ritireranno le reciproche accuse di genocidio che pendono al tribunale internazionale dell’Aja. La Croazia le ha presentate nel 1999, la Serbia nel 2010. Lunedì inizierà una serie di udienze per discuterle. La cosa dovrebbe durare un mese. “Non sarà piacevole”, ha ammesso Pusic, aggiungendo che però lei e il suo omologo sono d’accordo che il verdetto dei giudici – qualunque esso sia – non influirà sulle relazioni politiche attuali.

La ministra di Zagabria assicura che il suo Paese non ostacolerà il cammino europeo di Belgrado. Vucic dice di sperare che la Croazia farà di tutto per garantire i diritti della minoranza serba, riferendosi in particolare ai nazionalisti di Vukovar che abbattono le insegne con scritte in cirillico, imposte da una legge sul bilinguismo. Da entrambe le parti, insomma, invocazioni al rispetto reciproco, ma nessuna dichiarazione di disponibilità a lasciar perdere gli orrori degli anni ’90.

Il ragionamento ha una sua logica. Punire i responsabili di violenze e avere rapporti bilaterali civili sarebbe effettivamente l’ideale. Ma sembra difficile che le sentenze dell’Aja non abbiano ripercussioni sulle relazioni. La speranza è che siano contenute. In altri casi si è scelto di non perseguire tutti i crimini passati, e si è riusciti a costruire una democrazia compiuta: pensiamo all’Italia post-seconda guerra mondiale, o alla Spagna dopo la morte di Franco. Non sappiamo se lo stesso accadrà in un’ex-Jugoslavia profondamente segnata dalle guerre di fine Novecento.

Read Full Post »

Milorad Dodik e Radovan Karadzic (krupljani.ba)

Milorad Dodik e Radovan Karadzic (krupljani.ba)

A volte viene da pensare che Beppe Grillo sarebbe utile fuori dai confini italiani. Dalla sua Genova dovrebbe fare un migliaio di chilometri verso est, fino a Banja Luka, capoluogo della Repubblica serba di Bosnia (una delle entità in cui la guerra ha diviso il Paese). Una volta arrivato, il comico dovrebbe chiedere del presidente Milorad Dodik, in carica dal 2010, e riservare a lui il trattamento che dedica ai politici italiani. Proviamo a spiegare perché.

Dodik è intervenuto al Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia in difesa di Radovan Karadzic, primo presidente della Repubblica serba di Bosnia, tra ’92 e ’96. L’imputato è accusato di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Dodik ha detto di non aver mai assistito a nessuna delle atrocità di cui Karadzic deve rispondere, e soprattutto ha addossato all’allora presidente bosniaco Izetbegovic la responsabilità della guerra nel Paese. Il suo partito avrebbe armato i musulmani contro i serbi, che secondo Dodik si sarebbero semplicemente difesi, bloccando il presunto progetto di uno Stato islamico.

Ora, non c’è dubbio che tutte le parti in causa nel conflitto jugoslavo – serbi, bosniaci, croati – abbiano commesso atrocità. Ma dire che la guerra in Bosnia è scoppiata perché a Sarajevo si sognava un Paese dominato dalla sharìa è folle. Lo è meno ricordare che a Belgrado si pensava alla Grande Serbia. Lo è meno far presente quello che successe a Srebrenica, dove nel luglio 1995 furono massacrate migliaia di musulmani.

È grave che l’attuale presidente della Repubblica serba di Bosnia dica certe cose. Che Karadzic negasse tutto e scaricasse la responsabilità su altri era abbastanza prevedibile, purtroppo. Ma ci sembra inquietante che oggi, nel 2013, la guida in carica di una delle istituzioni bosniache si metta in gioco così per difenderlo. Si sarà capito cosa dovrebbe dire Grillo a Dodik, secondo noi. Non ci vuole fantasia. Quella che lo stesso Dodik sembra avere in abbondanza.

FONTI: Euronews, TMNews

Read Full Post »

Nella città bosniaca di Srebrenica, vicino al confine serbo, vennero uccisi 8mila musulmani (h3nr1.splinder.com)

Oggi Ratko Mladic è arrivato a L’Aja. L’ex capo di stato maggiore dell’esercito della Repubblica serba di Bosnia verrà giudicato dallo stesso tribunale che sta processando Radovan Karadzic, suo sodale nel massacro di migliaia di innocenti durante la guerra degli anni ’90. Il modo migliore per celebrare l’arresto e il rinvio a giudizio di Mladic ci sembra ricordare ciò che successe nel luglio 1995 a Srebrenica, la più orrenda strage di cui si sono macchiati i due criminali alla sbarra in Olanda. Per farlo ci serviamo di un brano tratto da “Le guerre jugoslave” dello storico Joze Pirjevec, che riportiamo qua sotto leggermente riadattato nella forma, ma identico nella sostanza.

Srebrenica, 12 luglio 1995. Le truppe serbe entrano a Potocari, un villaggio a sei chilometri da Srebrenica, dove le truppe dell’Onu hanno il loro quartier generale. Il comandante dei caschi blu ha ottenuto da Mladic l’assicurazione che donne, vecchi e bambini saranno evacuati nel territorio sotto il controllo dei musulmani. Nel primo pomeriggio arrivano a Potocari 40-50 veicoli, tra furgoni, camion e jeep, su cui viene caricato un primo contingente di persone. Mladic si fa vedere sulla scena dai giornalisti, che osservano i soldati serbi mentre distribuiscono acqua e pane agli sfollati e gettano dolci ai bambini. “Non abbiate paura – dice Mladic davanti alle telecamere. – State calmi, calmi. Lasciate che donne e bambini vadano per primi. Verranno tanti autobus. Non abbandonatevi al panico. State attenti che nessuno dei bambini si perda. Non abbiate paura. Nessuno vi farà del male”.

Ratko Mladic dopo l'arresto, avvenuto il 26 maggio 2011, dopo 16 anni di latitanza (ilmessaggero.it)

Intanto a New York il Consiglio di sicurezza dell’Onu adotta all’unanimità una risoluzione per chiedere “l’immediata cessazione dell’offensiva dei serbi bosniaci e il loro ritiro dalla zona di protezione di Srebrenica”. Una pronuncia formale, che non avrà alcun effetto. Sul calar della notte, i serbi raccolgono a Potocari gli uomini che sono riusciti a rastrellare in un edificio di fronte all’accampamento dell’Onu, noto come “casa bianca”. Alcuni di loro vengono uccisi sul posto, mentre la maggioranza viene trasportata a Bratunac, dove viene sottoposta a sevizie, prima di essere trucidata. Il 13 luglio inizia la grande mattanza in un’atmosfera di esaltazione collettiva, come sarà testimoniato dagli appartenenti a un convoglio dell’Agenzia Onu per i rifugiati, che vedono i serbi bosniaci, molti dei quali ubriachi, festeggiare nelle strade. Nei quattro giorni successivi le uccisioni di massa continuano senza tregua, con ogni tipo di arma, anche con granate.

Boutros Boutros-Ghali, segretario generale Onu dal 1992 al 1996. La comunità internazionale non impedì la strage di Srebrenica (agenziastampaitalia.it)

Per quanto già il 13 luglio le notizie che qualcosa di terribile sta accadendo a Bratunac comincino a raggiungere i vertici delle Nazioni Unite, Jasushi Akashi – rappresentante speciale del segretario Boutros-Ghali – chiede che non vengano rese pubbliche, per non mettere in pericolo gli osservatori militari dell’Onu ancora a Srebrenica. Solo il 16 e il 17 luglio, quando i giornalisti intervistano i primi fuggiaschi all’aeroporto di Tuzla e i caschi blu rimpatriati attraverso Zagabria, cominciano a trapelare le prime informazioni sul massacro. Uno degli uomini dell’Onu racconterà: “La stagione di caccia è al culmine… presi al bersaglio non sono solo gli uomini al servizio del governo bosniaco… ma anche donne, pure quelle incinte, bambini e vecchi… su alcuni si spara o li si ferisce, ad altri vengono tagliate le orecchie e alcune donne sono state stuprate”.

Il 16 luglio sul tardi e nelle prime ore del 17 luglio una colonna di uomini e ragazzi fuggiti attraverso i boschi raggiunge dopo sei giorni di marcia il territorio controllato dal governo di Sarajevo. Di 15mila, quanti erano partiti, ne sono rimasti vivi tra i 4500 e i 6000.

Read Full Post »

Carla Del Ponte è nata in Svizzera 64 anni fa

Carla Del Ponte è nata in Svizzera 64 anni fa (digilander.libero.it)

“Ratko Mladic si nasconde in Serbia”. Ne è convinta Carla Del Ponte, procuratore del Tribunale internazionale de L’Aja sull’ex Jugoslavia dal 1999 al 2007. “Solo là può ancora godere della protezione dei tanti amici e sostenitori che ha”, ha detto al quotidiano serbo Dnevnik.

Capo di stato maggiore dell’esercito della Repubblica Serba di Bosnia durante la guerra, Mladic è accusato di genocidio: nel luglio 1995 diresse la strage di 8 mila musulmani nell’enclave bosniaca di Srebrenica. Da quindici anni è latitante, mentre il suo sodale Radovan Karadzic, comandante in capo delle stesse forze armate, è stato arrestato nel 2008 ed è sotto processo a L’Aja.

La cattura di Mladic, oltre a fare giustizia per i familiari delle vittime, avvicinerebbe la Serbia all’Unione europea: la Del Ponte si dice sicura della “vera volontà politica” di Belgrado di trovare il massacratore, ma pensa anche che il governo abbia “il problema di individuare il momento giusto”. Difficile dire se l’ex procuratore intenda “il momento giusto per riuscire a catturarlo” o “il momento giusto per avere vantaggi politici dalla cattura”.

Il massacratore di Srebrenica Ratko Mladic con la moglie Bosa durante la guerra (rts.rs)

C’è chi è certo del Paese in cui si trova Mladic, e chi è sicuro che sia morto: è il caso della moglie Bosa, che insiste nel chiedere alle autorità di dichiararlo deceduto per mettere le mani sulle sue proprietà e sulla sua pensione. “Se fosse vivo, si sarebbe messo in contatto con noi”, ha ribadito a inizio aprile la signora Mladic, arrestata nel giugno 2010 per possesso illecito di armi.

In realtà le probabilità che Mladic sia vivo sono molte, e Belgrado avrebbe tutto da guadagnare da una sua consegna al Tribunale de L’Aja. Certo, rimangono le resistenze degli ultranazionalisti, di chi protesta contro la “persecuzione” del generale, di chi lo protegge per fedeltà o opportunismo. Ma il governo serbo sa che deve superare questi ostacoli se vuole entrare in Europa. E ha tutti i mezzi per poterlo fare.

Read Full Post »

L'ad Fiat Sergio Marchionne, il presidente serbo Boris Tadic e il ministro degli Esteri Franco Frattini

L’arresto di Mladic non è una condizione necessaria per l’ingresso della Serbia in Europa. E’ il pensiero del ministro degli Esteri Franco Frattini, in visita a Belgrado. Il Paese di Boris Tadic sta lottando con tutte le sue forze per entrare nell’Unione europea. Ma quello dei criminali di guerra resta un nodo cruciale.

“Abbiamo ripetuto più volte che il principio è quello della piena cooperazione”, dice Frattini. Per il ministro, la totale collaborazione delle istituzioni serbe col Tribunale penale internazionale (Tpi) sarebbe sufficiente a permettere l’adesione alla Ue. “Lo status di candidato all’Unione dipende da criteri prestabiliti e validi per tutti. Non possiamo pensare a condizioni aggiuntive per i singoli Paesi”. Vale a dire: non possiamo inserire una “clausola Mladic” per la Serbia.

Ratko Mladic, accusato di genocidio per Srebrenica, dove nel luglio 1995 vennero uccisi 8 mila musulmani

Il sostegno di Frattini non è del tutto disinteressato. I legami economici tra i due Paesi, che nel 2009 hanno stipulato un accordo di partenariato strategico, sono forti. I serbi esportano molto nel Belpaese. E attendono anche Paolo Romani, ministro dello Sviluppo economico, che arriverà in visita venerdì 11 febbraio. Senza dimenticare gli investimenti Fiat a Kragujevac. Una Serbia in Europa sarebbe sicuramente più forte. E renderebbe più forte l’Italia.

Ma cosa ne pensa Bruxelles? Serge Brammertz, procuratore capo del Tpi, andrà presto a Belgrado. “Riconosco che ci sono persone che stanno compiendo perfettamente il loro lavoro – diceva il procuratore a novembre – ma altre potrebbero compierlo in maniera più professionale”. Forse catturare Mladic non è una condizione necessaria per entrare in Europa. Ma di sicuro lo è l’impegno totale per trovarlo.

Read Full Post »

Il massacratore Ratko Mladic. Sulla sua testa pende una taglia da 10 milioni di euro

Mladic è in Serbia. E le autorità nazionali potrebbero fare di più per trovarlo. E’ il messaggio, nemmeno tanto velato, che arriva dalle parole di Serge Brammertz, procuratore capo del Tribunale penale internazionale (Tpi) per l’ex Jugoslavia. Il massacratore di Srebrenica è ricercato per genocidio e crimini di guerra. La sua cattura darebbe a Belgrado l’ultima spinta per entrare nell’Unione europea.

Il sogno del presidente serbo Tadic è racchiuso in due parole: “piena cooperazione”. Se i giudici dell’Aja la riconoscessero alle istituzioni serbe, il cammino verso Bruxelles sarebbe molto più agevole. Ma nel rapporto che Brammertz, in visita a Belgrado, invierà al Consiglio di sicurezza dell’Onu, questa espressione difficilmente comparirà. “Riconosco che ci sono persone che stanno compiendo perfettamente il loro lavoro – dice il procuratore – ma altre potrebbero compierlo in maniera più professionale”. Intanto il capo dell’ufficio governativo di contatto con il Tpi, Dusan Ignjatovic, dice di aspettarsi che nella relazione di Brammertz verrà riconosciuto alla Serbia un alto livello di collaborazione.

Carla Del Ponte è stata procuratore del Tribunale per l'ex Jugoslavia dal 1999 al 2007

Secondo Bruno Vekaric, portavoce della procura serba per i crimini di guerra, la latitanza di Mladic sta costando al Paese oltre un miliardo di euro l’anno. Pesano gli investimenti persi e il mancato accesso ai fondi comunitari. Proprio ieri è stato arrestato un uomo coinvolto nel massacro di Srebrenica: Dragan Crnogorac, 38 anni, che nel 1995 militava nell’unità speciale della polizia dei serbi di Bosnia. Un “pesce piccolo” è caduto nella rete. All’Aja continuano ad aspettare quello grosso.



Read Full Post »

La latitanza di Ratko Mladic è un ostacolo all'ingresso della Serbia nella Ue

“La nostra vera priorità è sbarazzarci della popolazione musulmana”. Basta questa frase per capire chi è Ratko Mladic, il generale serbo accusato di genocidio e crimini di guerra dal Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia (Tpi). Latitante dal 1996, durante il conflitto teneva dei diari su cui annotava le proprie riflessioni: da quei quaderni, sequestrati a febbraio a casa della moglie Bosa, vengono gli scritti pubblicati da “Repubblica” qualche giorno fa. Scritti agghiaccianti, che dimostrano una volta di più quale fosse il progetto comune di Serbia e Croazia: spartirsi la Bosnia.

“I musulmani sono il nemico comune nostro e dei croati, dobbiamo cacciarli in un angolo dal quale non possano più muoversi”. Così scrive Mladic, che riporta anche citazioni del suo sodale, il massacratore di Srebrenica Radovan Karadzic: “Dobbiamo aiutare i croati a forzare la mano ai musulmani affinché accettino la divisione della Bosnia”, disse durante una riunione a cui partecipò anche il presidente serbo Slobodan Milosevic. Il nodo cruciale della questione, in fondo, sta tutto qui: nell’ipotesi che le autorità di Belgrado abbiano pianificato lo sterminio dei musulmani. Un’ipotesi negata dalla Corte internazionale di giustizia, che nel febbraio 2007 ha assolto lo Stato serbo da responsabilità dirette nel genocidio.

Nei suoi diari Mladic cita Slobodan Praljak, il generale croato che abbattè il ponte di Mostar

La decisione dei giudici dell’Aja fece discutere allora e fa discutere a maggior ragione adesso, di fronte alle annotazioni di Mladic. Se non è provato che il governo ordinò lo sterminio di 8 mila musulmani a Srebrenica, è difficile credere che fosse all’oscuro di ciò che facevano i suoi militari, ed è incontestabile che l’idea della creazione di una Grande Serbia passasse dall’accordo con i croati per dividersi la Bosnia. Ora i diari di Mladic, 18 quaderni per 3 mila e 500 pagine complessive, verranno usati dal Tpi proprio nel processo contro Karadzic. E l’orrore della comunità internazionale di fronte a questi scritti potrebbe finalmente tradursi in una sentenza di condanna.

Read Full Post »

La prefazione del libro è del giornalista de "La Repubblica" Paolo Rumiz

L’hanno chiamata guerra etnica. Guerra religiosa. Guerra fratricida. Ma nessuno ha mai parlato di “guerra psichiatrica” per riferirsi al conflitto balcanico degli anni ’90. Lo fanno Angelo Lallo, collaboratore del Centro studi e ricerche sulla salute mentale di Merano, e Lorenzo Toresini, direttore dello stesso Centro studi: Il tunnel di Sarajevo (Ediciclo Editore, 2004) raccoglie i loro scritti e quelli di altri studiosi, per spiegare le violenze avvenute oltre Adriatico in una chiave molto particolare.

Perché parlare di guerra psichiatrica? In primo luogo perché molti protagonisti dei massacri erano psichiatri: uno su tutti, Radovan Karadzic, il boia di Srebrenica, attualmente sotto processo a L’Aja per genocidio e crimini contro l’umanità. In secondo luogo perché la guerra dei Balcani aveva il primo scopo, in parte raggiunto, di dividere ciò che era stato unito fino ad allora: persone di religione diversa, o appartenenti ad “etnie” (o presunte tali) diverse, che avevano sempre convissuto pacificamente. E per farlo, lo strumento principe era la pulizia etnica, lo sterminio del “diverso”, spesso giustificato dai paradigmi della peggiore psichiatria sociale. E dire che – scrive Toresini – “la psichiatria vede nel suo DNA primigenio i principi di tolleranza, disponibilità e apertura nei confronti di chi, diverso, non meritava più la punizione della sofferenza nelle segrete”: ma la psichiatria, come ogni strumento, può diventare mortale se ne se fa un uso distorto e volto a seminare odio.

Lo psichiatra e massacratore Radovan Karadzic: a sinistra, dopo la cattura nel 2008, a destra, con la moglie nel 1994

Il libro contiene i contributi di persone che hanno lavorato nel cuore di Sarajevo assediata (Mevlida Serdarevic, direttore del Museo ebraico; Ajnija Omanic, direttore della facoltà di Medicina), di professionisti che hanno lavorato nella stessa clinica di Karadzic prima della guerra (Slobodan Loga e Ismet Ceric) e altri ancora: tutto per dimostrare come l’ottica psichiatrica sia quella giusta per valutare il conflitto dei Balcani. Non ci sentiamo di sposare in toto questa tesi, ma una cosa è certa: qualunque interpretazione si allontani da quelle, superficiali e fuorvianti, che vedono nella guerra degli anni ’90 esclusivamente una guerra di religione, o peggio ancora una guerra etnica, contribuisce ad arricchire la riflessione su un dramma le cui vere ragioni sono ancora tutte da chiarire.

Read Full Post »

Il presidente serbo Boris Tadic. Nel 2006 andò a Srebrenica per testimoniare la volontà di Belgrado punire i colpevoli della strage

“Condanniamo nel modo più severo l’eccidio ed esprimiamo profonde condoglianze e scuse alle famiglie delle vittime, in quanto non è stato fatto abbastanza per prevenire la tragedia”. Ci sono voluti 15 anni, ma alla fine le istituzioni serbe hanno chiesto perdono per la strage di Srebrenica. Il documento approvato il 31 marzo dal parlamento non contiene la parola “genocidio”, ma può essere comunque un passo in avanti verso la riconciliazione tra i Paesi dell’area balcanica, oltre che una mossa strategica per accelerare l’ingresso della Serbia nell’Unione europea.

La risoluzione sullo sterminio del 1995 è stata votata da 127 parlamentari su 173. La sostenevano democratici e socialisti, convinti che fosse un atto necessario per avvicinarsi a Bruxelles, mentre la destra avrebbe voluto che nello stesso testo si citassero anche le violenze subite dai serbi. Una “parificazione della memoria” che invece verrà affidata a una seconda dichiarazione, all’esame dell’assemblea nazionale tra pochi giorni. La scelta di parlare di “eccidio” – anziché di “genocidio” – nasce anche da questo quadro politico, che avrebbe impedito di trovare l’accordo su una condanna più netta del massacro. Il compromesso raggiunto dai partiti “europeisti” non convince totalmente né i serbi di Bosnia (“può essere usato dagli altri per dissimulare le proprie colpe”, dice il premier Milorad Dodik) né i familiari delle vittime di Srebrenica, secondo cui “genocidio” è l’unica parola giusta per riferirsi alla strage. Per l’Alto rappresentante Ue Catherine Ashton e il commissario europeo all’Allargamento Stefan Fuele, invece, il voto del 31 marzo è un fatto positivo, “importante per il Paese” e per la “stabilità dell’intera regione balcanica”.

Il cartello di ingresso a Srebrenica (in caratteri cirillici). Il 12 luglio '95 fu uno dei giorni in cui vennero uccisi circa 8 mila musulmani

A Srebrenica, nel luglio 1995, vennero uccisi circa 8 mila musulmani: un “genocidio” per il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, che nel 2007 ha comunque assolto lo Stato serbo da responsabilità dirette. Secondo i giudici de L’Aja, l’eccidio non fu causato da ordini “dall’alto”, ma solo dalla crudeltà di criminali come i leader dei serbi di Bosnia Ratko Mladic e Radovan Karadzic. Il primo, ancora latitante, è l’ostacolo principale sulla strada tra Belgrado e Bruxelles: la sua cattura è una delle condizioni poste dalle istituzioni europee per l’ammissione della Serbia nell’Unione. Il secondo è stato arrestato il 21 luglio 2008 e sta facendo di tutto per rallentare il processo a suo carico, consapevole che il mandato dei magistrati olandesi scadrà nei primi mesi del 2012. Proprio ieri il Tribunale ha respinto la sua richiesta di riprendere le udienze a giugno, fissando la prossima sessione per il 13 aprile. “Vogliamo trovare i responsabili della strage di Srebrenica, in particolare il generale Mladic”, ha ribadito in questi giorni il presidente serbo Boris Tadic, che il 22 dicembre scorso ha presentato la domanda di adesione alla Ue. Se alle parole seguiranno i fatti, Belgrado potrebbe finalmente dimostrare non solo il desiderio di entrare in Europa, ma anche la volontà di affrontare onestamente le ombre del proprio passato.

Read Full Post »

Ganic con Margaret Thatcher. All'inizio pareva fosse stata lei a pagare la cauzione che lo ha liberato

Sarajevo, 3 maggio 1992. Il presidente bosniaco Alija Izetbegovic è ostaggio dei militari di Belgrado. Il generale serbo Milutin Kukanjac è prigioniero dei soldati musulmani. Le due parti si accordano per uno scambio, ma l’intesa non viene comunicata ad Ejup Ganic, responsabile delle forze armate della Bosnia-Erzegovina. I suoi uomini sparano sul contingente di Kukanjac, che era segregato in caserma insieme all’ufficiale. Izetbegovic viene comunque liberato. Tornato a palazzo, grida furente: “Era veramente necessario farmi quasi uccidere, per saccheggiare quaranta fucili?”.

Per questi fatti Ejup Ganic, membro musulmano della Presidenza collettiva bosniaca durante il conflitto, è stato arrestato pochi giorni fa a Londra, su richiesta del governo serbo. Il politico è stato però rilasciato oggi dall’Alta Corte della capitale inglese. A pagare la cauzione di 300 mila sterline (circa 350 mila euro) è stata Diana Jenkins, moglie di uno dei più influenti banchieri londinesi, nata a Sarajevo e scappata da lì durante la guerra. Pur non avendo mai conosciuto Ganic, la donna ha definito “uno scandalo” la sua carcerazione, che gli impediva di poter “contrastare queste accuse ridicole da uomo libero”. L’ex leader balcanico dovrà comunque restare sul territorio britannico, finché i giudici non si saranno pronunciati sulla richiesta di estradizione presentata da Serbia e Bosnia.

Diana Jenkins, ex profuga bosniaca, ha pagato 350 mila euro per far rilasciare Ganic

Nel 2003 il Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia aveva esaminato il “fascicolo Ganic”, senza trovare elementi di responsabilità penale a suo carico. Durante il conflitto, il politico fu accusato anche di aver imposto il proprio controllo sugli aiuti umanitari che arrivavano in città, immagazzinandoli in località segrete e rivendendoli a caro prezzo alla popolazione. Ora la presidenza bosniaca è spaccata: per il membro musulmano Haris Silajdzic “si vuole processare la resistenza all’aggressione di Belgrado”, per l’esponente serbo Nebojsa Radmanovic lo stesso Silajdzic “privatizza lo Stato per sostenere Ganic”. Ancora una volta, una controversia riguardante la guerra divide gli organi di governo di Sarajevo, frantumati in tre dagli accordi di Dayton. Forse la tripartizione del Paese tra croati, serbi e musulmani non fu, come la definì Ganic, la “legalizzazione del genocidio”. Sicuramente, però, ha creato un vero caos istituzionale, che appare in tutta la sua gravità quando riemergono le tragedie degli anni ’90.

Leggi anche: Scappò da Sarajevo. Oggi è la regina della finanza inglese

Read Full Post »

Older Posts »