L’euro è la moneta di 19 Stati della Ue, più alcuni che non ne fanno parte (foto JT, http://bit.ly/R7HqWA)
C’è chi resta nell’Unione europea, ma ha rischiato di abbandonare la moneta unica. Poi c’è chi l’ha adottata senza far parte della Ue. È il caso di Montenegro e Kosovo, che hanno fatto questa scelta nel 2002. Già prima si erano buttate sul marco tedesco: quando è sparito hanno seguito la stessa strada della Germania. L’esistenza di questi due precedenti fa pensare che espellere la Grecia dall’euro potrebbe essere più difficile di quanto sembra. Se Podgorica e Pristina hanno iniziato a usarlo senza chiedere il permesso a nessuno, cosa impedirebbe ad Atene di continuare a farlo?
In queste ore un’ipotesi di questo tipo sembra lontana, perché a Bruxelles è stato trovato un compromesso: il governo greco dovrebbe essersi garantito sia la permanenza nell’Unione che quella nella valuta continentale. La scelta fatta dai due Stati dell’ex Jugoslavia, però, è interessante in ogni caso. Non possono stampare euro, perché non sono autorizzati: per ottenerli passano dalle banche internazionali e dai cittadini stranieri in visita nel Paese. Se un giorno dovesse scoppiare una crisi come quella ellenica, in teoria i governi balcanici non potrebbero chiedere aiuto alle istituzioni europee, dato che non ne fanno parte.
Difficile dire cosa succederebbe se la moneta unica dovesse perdere bruscamente valore, o comunque essere meno stabile di oggi. Una soluzione potrebbe essere l’addio all’euro, con il ritorno a una valuta nazionale. Al momento l’economia di Montenegro e Kosovo sembra legata a doppio filo agli istituti di credito stranieri. Viene da dire che non è una bella situazione. Ma nemmeno quella della Grecia lo è.
La responsabile esteri Ue Mogherini con il capo del governo kosovaro Isa Mustafa (foto European External Action Service, http://bit.ly/R7HqWA)
Oltre 100mila persone espatriate in pochi mesi. Fanno impressione i dati contenuti in una relazione discussa al parlamento kosovaro. Dall’ex provincia serba è in corso una specie di esodo, che sembra motivato innanzitutto da ragioni economiche: la zona è una delle più povere d’Europa, e in questi anni la classe politica non ha fatto abbastanza per migliorare la situazione.
Il tasso di disoccupazione è intorno al 40%. Circa un quinto della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Gli abitanti sono poco meno di due milioni e negli ultimi anni una fetta importante ha lasciato il paese. Alcuni sono stati costretti a tornarci: pochi giorni fa un gruppo di kosovari entrati illegalmente nell’Unione europea è stato messo su un aereo e rispedito in patria da Germania, Austria, Svezia, Finlandia e Ungheria. Quest’ultimo paese è la porta d’ingresso nella Ue per molte di queste persone, che attraversano la Serbia per raggiungerlo. Alcune settimane fa le autorità di Budapest e Belgrado hanno rafforzato i controlli alle frontiere.
Chi riesce a passare il confine può chiedere asilo, ma in Kosovo non ci sono guerre o persecuzioni come in Siria, Iraq o altri paesi da cui scappano milioni di rifugiati. Molti cittadini balcanici sembrano destinati a essere rimandati indietro, a meno che non provino a vivere negli stati in cui entrano da “invisibili”, senza segnalare la loro presenza. Tutto questo a sette anni dalla dichiarazione d’indipendenza di Pristina, accettata finora da 108 su 193 membri dell’Onu e da 23 su 28 dell’Unione europea.
Quest’anno è attesa la firma dell’accordo di stabilizzazione e associazione con la Ue, ma la novità più importante dei prossimi mesi rischia di essere l’esplosione del malcontento, dopo che a gennaio nella capitale ci sono state proteste e scontri. L’anno scorso il Kosovo è rimasto senza governo per mesi, in preda a una crisi istituzionale. Al di là del tira e molla con la Serbia per ottenere il definitivo distacco, al momento non si può dire che le cose dopo la secessione siano andate bene.
Il parlamento sloveno (foto Simonetta Di Zanutto, http:// bit.ly/1iowB8m)
Una crescita del pil del 2,4% nel 2014, dell’1,7% nel 2015 e del 2,5% nel 2016. C’è da scommettere che Matteo Renzi pagherebbe per avere delle stime così dalla commissione europea. Questi dati però riguardano la Slovenia. Lubiana è in crisi da anni, nei mesi scorsi si era parlato di possibili aiuti internazionali, insomma: non siamo di fronte alla locomotiva tedesca, o agli Stati Uniti rimessi in piedi dopo il crac del 2008. Come si spiegano allora le previsioni sul paese balcanico?
Iniziamo col dire che quelle europee per quest’anno sono addirittura migliori di quelle del governo sloveno, che parlava di un aumento del prodotto interno lordo del 2%. A trainare la crescita sembrano essere export e investimenti, entrambi in ripresa negli scorsi mesi. Difficile, invece, dire che dietro il trend positivo ci sia la stabilità politica: l’ultimo governo è nato in estate, e quello precedente si era insediato l’anno scorso. Il pil era crollato dell’8% nel 2009, per poi aumentare di poco nei due anni seguenti. Poi ancora segno meno, ed è interessante segnalare che proprio un anno fa la commissione europea stimava che nel 2014 il prodotto sloveno avrebbe perso l’1%.
Stime come queste vanno prese con le molle, quindi, come insegnano anche le vicende italiane (ad aprile il governo ipotizzava per quest’anno una crescita vicino al punto percentuale; alla fine dei conti molto probabilmente sarà negativa). A Lubiana i fattori che potrebbero causare un nuovo peggioramento della situazione non mancano: debito pubblico aumentato negli ultimi anni, sistema bancario in crisi, politiche di austerità che altrove hanno fatto molti danni. Ancora presto, quindi, per parlare di sicura uscita dal tunnel.
Josip Perkovic, ex ufficiale di intelligence jugoslavo, accusato di un omicidio avvenuto in Germania nel 1983 (novilist.hr)
La Croazia fa mezzo passo indietro sulla questione del mandato d’arresto europeo. Alcuni giorni fa si era saputo che la Ue aveva protestato con Zagabria, colpevole di aver cambiato le norme in materia tre giorni prima di entrare nell’Unione. Ora il mandato d’arresto vale solo per i crimini commessi dopo il 2002, e quindi non per quelli della guerra e per il “caso Perkovic”, su cui fa polemica l’opposizione al governo croato, che nelle scorse ore si sarebbe detto disponibile a rimediare.
Il 1° luglio Zagabria è diventata la 28° capitale comunitaria. Pochi giorni prima aveva preso le decisioni contestate da Bruxelles, che non ne sarebbe stata informata. Scoperta la cosa, il commissario alla Giustizia Viviane Reding ha scritto alle autorità croate, che hanno risposto pochi giorni fa. La portavoce di Reding ha fatto sapere che il governo si è detto disponibile a cambiare la legge. Dirsi disponibili, però, non significa averlo fatto: non a caso la portavoce ha sottolineato che alle parole devono seguire i fatti.
I dubbi della Ue sono legittimati anche dalle dichiarazioni di una fonte anonima del governo croato al quotidiano Jutarnji list: “Le norme saranno cambiate solo se sarà dimostrato che abbiamo torto”. Pare che i Paesi entrati nell’Unione prima del 2002 possano applicare la limitazione decisa dalla Croazia, perché in quell’anno fu introdotto il mandato d’arresto europeo. Il confine temporale, invece, sarebbe vietato per gli Stati che hanno aderito dopo.
Un bel groviglio, il cui centro potrebbe essere Josip Perkovic. Ex alto ufficiale dei servizi segreti della vecchia Jugoslavia, è accusato in Germania di un omicidio politico avvenuto nel 1983. Secondo l’opposizione croata il vero scopo del governo è tutelare lui. Se fosse vero, Zagabria e Roma scoprirebbero di avere un nuovo punto in comune, oltre alla crisi, l’Adriatico e l’appartenenza alla Ue: le leggi ad personam.
Incontro teso tra il cancelliere tedesco Merkel e il presidente serbo Tadic (morgenpost.de)
La Croazia è un esempio da seguire. La Serbia può imitarla, ma deve fare passi avanti sul Kosovo. Sono i due messaggi-chiave del cancelliere tedesco Angela Merkel, in visita ufficiale per la prima volta a Zagabria e Belgrado. Tutta coccole e complimenti nella capitale croata, la “donna più potente del mondo” (così l’ha definita la rivista americana Forbes) ha chiesto progressi al presidente serbo Boris Tadic, invitandolo al dialogo con la provincia ribelle se vuole continuare la marcia verso l’Europa.
Oltre 2 miliardi e mezzo di interscambio commerciale: basterebbe questo dato a spiegare l’affinità tra Germania e Croazia, che ha radici davvero molto profonde. Berlino è stata in prima fila nel riconoscere l’indipendenza di Zagabria a inizio anni ’90; il governo tedesco si impegnò a fondo per far entrare ufficialmente il nuovo Stato nello scacchiere internazionale. A vent’anni di distanza, i rapporti sono ancora saldi: la Germania è al terzo posto tra gli investitori in Croazia, preceduta solo da Austria e Olanda, e quest’anno il flusso turistico in direzione dei Balcani (già consistente) è aumentato del 15%.
A inizio anni '90 il ministro degli Esteri tedesco Genscher e il cancelliere Kohl aiutarono la Croazia a rendersi indipendente (bundestag.de)
Naturale che la Merkel abbia indicato il percorso di Zagabria verso Bruxelles come un percorso-modello, che salvo intoppi improvvisi porterà il Paese a essere il 28° membro dell’Unione europea. In realtà è come se il colloquio avuto il 22 agosto con il primo ministro Jadranka Kosor fosse un’anticipazione di quello del giorno successivo con Tadic: gli apprezzamenti rivolti alla Croazia sono inviti indiretti alla Serbia, perché rimuova gli ostacoli che ancora frenano la sua corsa verso l’Europa.
L’ostacolo, in verità, è uno solo e si chiama Kosovo. “So che un problema simile non si risolve in una notte. Ma credo che un problema simile si possa risolvere”, ha detto la Merkel di fronte al presidente serbo. Il cancelliere tedesco ha assicurato che “il posto della Serbia è in Europa, ma è necessario che ci siano progressi nei rapporti tra Belgrado e Pristina”. Equilibrista come sempre la posizione di Tadic: “La Serbia è consapevole di non poter portare nell’Unione un nuovo conflitto, ma ritiene del tutto sbagliato porre il Paese di fronte alla scelta fra Europa e Kosovo. Vogliamo una soluzione, vogliamo la libera circolazione di beni e servizi, non vogliamo congelare il conflitto. Vogliamo riprendere il dialogo con Pristina. Ma non riconosceremo mai il Kosovo“.
Belgrado, insomma, insiste nel suo tentativo di avvicinarsi a Bruxelles senza lasciare indietro Pristina, con cui Tadic intravede la possibilità di una “soluzione di compromesso” che accontenti a metà entrambi i contendenti. Una strada difficile, ma percorribile, soprattutto dopo che la Serbia ha adempiuto completamente ai suoi obblighi riguardo ai criminali di guerra, consegnando al Tribunale de L’Aja – dopo Karadzic – anche Mladic e Hadzic. Zagabria è quasi in Europa, Belgrado ancora no. Ma se vuole farcela portando con sé il Kosovo, l’attesa è inevitabile.
La Nazionale di calcio jugoslava vincitrice dei Mondiali under 20 del 1987. Il primo in piedi a sinistra è Zvonimir Boban (radioeuropaunita.wordpress.com)
Svezia, giugno 1992. Si disputa una delle competizioni calcistiche più sorprendenti di sempre. La Danimarca di Peter Schmeichel e Brian Laudrup si laurea campione d’Europa, facendo fuori – nell’ordine – Inghilterra, Francia, Olanda e Germania. Ma il particolare più incredibile, e spesso dimenticato, è un altro. I biancorossi non avrebbero dovuto partecipare alla manifestazione. Furono ripescati all’ultimo minuto, in sostituzione di un’altra squadra: la Jugoslavia.
La selezione balcanica, che si era qualificata a pieno titolo, venne esclusa per la guerra in corso. Una decisione che decretò la fine di una delle Nazionali storiche del calcio mondiale. Quarta ai Mondiali del 1930 e 1962, seconda agli Europei del 1960 e 1968, a Italia ’90 era stata fermata ai quarti di finale dall’Argentina. In quella formazione c’erano campioni come Boksic, Prosinecki, Savicevic, Stojkovic, Suker. Alcuni di loro si sarebbero ritrovati avversari otto anni dopo, ai Mondiali di Francia, con le maglie di Croazia e Serbia.
Da allora il calcio balcanico ha vissuto alterne fortune. Il picco è rappresentato dal terzo posto croato ai Mondiali conquistato proprio nel 1998. La selezione biancorossa può vantare anche di essere arrivata due volte ai quarti di finale degli Europei: nel 1996, in Inghilterra, e nel 2008, in Austria e Svizzera. Allo stesso punto si è fermata nel 2000 (Europei in Belgio e Olanda) la Serbia, mai più avanti degli ottavi di finale di un Mondiale (raggiunti nel ’98). Ancora più modesti i risultati della Slovenia (bloccata al primo turno a Euro 2000 e ai Mondiali 2002 e 2010), per non parlare di quelli di Bosnia, Macedonia e Montenegro (unito alla Nazionale serba fino al 2007), mai qualificate a nessuna delle due competizioni.
Nemanja Vidic, capitano del Manchester United e pilastro della Nazionale serba (mjpurpleaces.blogspot.com)
Poca gloria, quindi, per squadre giovani e ancora “immature”. Eppure il talento ci sarebbe. Se proviamo a mettere insieme i migliori elementi delle sei selezioni nate dalla disgregazione balcanica (Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia, Macedonia e Montenegro), il risultato è eccellente. In porta possiamo affidarci a Samir Handanovic, estremo difensore sloveno dell’Udinese. Davanti a lui un invidiabile terzetto serbo: Nemanja Vidic, capitano del Manchester United, Branislav Ivanovic, pilastro del Chelsea, e Neven Subotic, campione di Germania col Borussia Dortmund.
A centrocampo spazio al 21enne bosniaco Miralem Pjanic, già più di 100 partite col Lione, e al 26enne croato Luka Modric, inamovibile del Tottenham. Al loro fianco altri tre serbi: Dejan Stankovic, 209 presenze e 29 gol nell’Inter, Milos Krasic, nota lieta nella disastrosa Juventus recente, e Zdravko Kuzmanovic, rinato allo Stoccarda dopo l’esperienza altalenante di Firenze. Devastante la coppia d’attacco: il bosniaco Edin Dzeko, da gennaio al Manchester City, e il montenegrino Mirko Vucinic, fuoriclasse della Roma.
Tra i “rincalzi”, tra chi resterebbe escluso solo per ragioni di spazio, ci sono giocatori del calibro di Aleksandar Lukovic, difensore serbo dello Zenit San Pietroburgo, Josip Ilicic, centrocampista sloveno del Palermo, e Goran Pandev, attaccante macedone dell’Inter. Una squadra così potrebbe tranquillamente puntare alle prime posizioni di qualsiasi competizione. Ma una squadra così non può esistere, perché la Storia con la esse maiuscola – quella vera, ben più ampia di un campo di calcio – ha separato i Paesi che componevano la Jugoslavia. E le loro (finora) poco fortunate Nazionali di calcio.
Josip Broz Tito è stato alla guida della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia dal 1945 al 1980
Sono passati 18 anni dalla dissoluzione dell’ex Jugoslavia. Ma sono ancora tanti i nodi da sciogliere. Alcuni risalenti addirittura alla fine della Seconda Guerra Mondiale. E’ il caso del problema dei beni confiscati dal regime di Tito. Negli anni ’90 le repubbliche balcaniche, sorte sulle ceneri della Federazione Jugoslava, hanno approvato delle leggi di de-nazionalizzazione, per restituire le proprietà alle vittime degli espropri. Queste leggi, però, escludevano dal diritto di restituzione chi oggi è cittadino straniero. Ora una sentenza dell’Alta Corte di Zagabria potrebbe rimediare.
Subito dopo il secondo conflitto mondiale, Tito aveva giustificato le confische agli italiani con il mancato pagamento di 125 milioni di dollari di danni di guerra. Oggi tra i beni che potrebbero essere restituiti ce ne sono alcuni di grande valore: ad esempio lo stabilimento industriale di Zara che distillava il Maraschino, costruito dalla famiglia Luxardo, o il prestigioso palazzo Milesi, a Spalato, reclamato dagli eredi Lanzetta. La decisione della magistratura consente ai legittimi proprietari di pretendere la riconsegna dei beni nazionalizzati da Tito. Dal 1992 ad oggi le persone che hanno già fatto richiesta sono più di 4 mila: tra questi ci sono 1.034 italiani, 676 austriaci, 175 israeliani, 143 tedeschi e 114 sloveni. Il governo croato aveva congelato le loro richieste in attesa del pronunciamento della Corte.
L'Unione degli Istriani, associazione di esuli, ha pronta una lista di altri 1.411 beni da richiedere al governo croato
Non è detto, però, che il “sì” dei giudici sblocchi immediatamente la situazione. Zagabria, infatti, potrebbe voler approvare una legge di definitiva interpretazione della questione, prima di procedere con le restituzioni. Se sarà così, i tempi si allungheranno inevitabilmente, forse di altri due o tre anni. Il rebus dei beni espropriati, insomma, resta irrisolto. Anche se è meno enigmatico di prima.
Tre punti non sono bastati al ct Radomir Antic per portare la Serbia agli ottavi di finale. I balcanici tornano a casa a testa bassa
Tutti eliminati, vincitori e vinti. Australia-Serbia finisce così. Gli oceanici sono affossati dalla peggior differenza reti rispetto al Ghana. I balcanici pagano soprattutto la mancanza di carattere. La squadra di Pim Verbeek esce a testa alta. Quella di Radomir Antic decisamente meno.
Eppure il primo tempo si gioca a una porta sola: quella australiana. Branislav Ivanovic, difensore del Chelsea, e Milos Krasic, centrocampista del CSKA Mosca, mettono paura più volte al portiere Mark Schwarzer. L’occasione più clamorosa arriva al 23’. Ivanovic colpisce di testa dal limite dell’area piccola, ma l’estremo difensore avversario compie un miracolo. Poco prima aveva deviato in angolo un tiro di Krasic, bravo a liberarsi di Jason Culina e a battere a rete. Quello serbo non è un dominio assoluto, ma basta a far sì che l’Australia non vada vicina al gol per tutta la prima frazione.
Nella ripresa lo scenario si ribalta. Il centrocampista del Palermo Mark Bresciano si vede respingere due belle conclusioni da Vladimir Stojkovic. La Serbia inizia ad arretrare. Al 69’ Tim Cahill, centrocampista dell’Everton, vince il derby “inglese” col difensore del Chelsea Nemanja Vidic: sul cross dalla destra di Brett Emerton, l’australiano stacca più alto e batte Stojkovic con un bel colpo di testa. Antic ora è fuori dal Mondiale. Verbeek comincia a crederci. Gli dà ragione il suo attaccante Brett Holman, che segna il 2-0 con un bel tiro da fuori area. Mancano venti minuti alla fine. I socceroos devono fare altri due gol per qualificarsi.
Ma l’illusione dura poco. All’84’ Marko Pantelic ribadisce in rete un tiro di Zoran Tosic respinto da Schwarzer. Adesso sono i serbi a sperare. Il pareggio significherebbe passaggio del turno. Pantelic la mette detto dentro ancora: annullato per fuorigioco. E’ in posizione irregolare anche al 93’, quando riceve palla smarcato a pochi passi dalla porta. Il guardalinee lascia giocare. Pantelic calcia alto. E’ finita, per serbi e australiani. Passano Germania e Ghana. A Johannesburg, lontano da qui, vincitori e vinti festeggiano insieme.
Zdravko Kuzmanovic, centrocampista della Serbia. Una sua ingenuità ha provocato il rigore che ha affossato i balcanici
Si apre oggi un capitolo speciale di Balcanews: in collaborazione con la testata La Sestina, seguiremo il cammino “mondiale” di Serbia e Slovenia, le due Nazionali balcaniche che si sono qualificate per Sudafrica 2010. Come sempre in questo blog, cercheremo di restituire uno spaccato di ex Jugoslavia (in questo caso sportiva), senza pretendere di raccontarla esaustivamente. Anche il calcio può dirci qualcosa su ciò che succede oltre l’Adriatico: proveremo a trasmettervi fatti, storie, emozioni che ci aiutino a capire chi sono i nostri “vicini” e come vivono uno degli eventi più seguiti dalla popolazione mondiale.
Finisce con un serbo che esulta. Ma è il Ghana a vincere. Milovan Rajevac, ct delle Stelle Nere, porta a casa la prima vittoria di una squadra africana in questo Mondiale. Un successo meritato, che arriva al termine di una gara non esaltante, come molte di quelle viste finora in Sudafrica.
Il primo tempo scorre via senza emozioni forti. Chi si aspettava una Serbia padrona del gioco rimane deluso. Gli uomini del ct Radomir Antic sono spenti, senza idee, incapaci di avvicinarsi all’area di rigore avversaria. Gli unici brividi per gli africani arrivano dai calci piazzati. Provano a far male due “italiani”: prima l’interista Dejan Stankovic sforna un assist non sfruttato dal centravanti Marko Pantelic. Poi esce di poco una punizione del laziale Aleksandar Kolarov. Più pericolosi i tentativi degli africani, che giocano palla a terra e affondano soprattutto a sinistra, sfornando cross insidiosi respinti con affanno dai serbi. In bella evidenza il gioiellino dell’Udinese Kwadwo Asamoah: dai suoi piedi passano molte azioni d’attacco ghanesi.
La ripresa si apre con un’occasione per parte. Asamoah Gyan, a segno ai Mondiali tedeschi del 2006, spreca in malo modo un contropiede due contro due. Lo imita Milan Jovanovic, che entra in area da sinistra ma svirgola il tiro. E’ uno dei pochi sussulti della Serbia: i balcanici tremano più volte per le incursioni di Andrè Ayew, figlio di Abedì Pelè, giocatore del Torino degli anni ’90. L’occasione più grande arriva al 60’. Su una rimessa laterale, la difesa serba si addormenta e Gyan colpisce di testa: palo esterno. Poi la partita sembra spegnersi. La riaccende Aleksandar Lukovic, difensore dell’Udinese, che si fa espellere per doppia ammonizione a un quarto d’ora dalla fine. Tipico paradosso calcistico: il Ghana inizia a subire gli avversari adesso che sono in inferiorità numerica. Milos Krasic impegna il portiere Richard Kingson con un tiro deviato in angolo. Branislav Ivanovic, stella del Chelsea, sfiora il gol della vita con una bordata da fuori. Ma all’improvviso accade l’impensabile. Su un innocuo attacco degli africani, Zdravko Kuzmanovic colpisce la palla in area con il braccio. Grande ingenuità che costa un calcio di rigore, nettissimo. Lo trasforma Gyan, il migliore in campo. Sempre lui colpisce un palo (il secondo) a pochi minuti dalla fine. Il 2-0, forse, sarebbe stato eccessivo. Ma sull’1-0 c’è poco da discutere.
Finisce con un serbo che si dispera. Kuzmanovic, centrocampista ex Fiorentina, è il primo colpevole di una sconfitta inaspettata per i balcanici. La squadra di Antic ha deluso per tutti i novanta minuti, messa sotto da una rivale più organizzata del previsto. Stasera c’è Germania-Australia, seconda gara del girone D. La prima ha regalato poche emozioni. E una grande sorpresa.
Il ministro della Difesa Ignazio La Russa al Corriere della Sera: "Se contrasta con la riduzione del contingente nei Balcani, il comando centrale del Kosovo è un problema"
L’Italia rinuncia al comando della Kfor. La Kosovo force, la forza militare internazionale diretta dalla Nato per garantire la stabilità e la ricostruzione dell’area, è a guida tedesca dal settembre 2009. Negli ultimi mesi gli Stati Uniti hanno corteggiato il nostro Paese per chiedergli di assumere le redini della missione. La crisi economica ha spinto il governo a rifiutare. Berlusconi intende aumentare i militari in Afghanistan, riducendo allo stesso tempo quelli inviati nei Balcani.
La Kfor è attiva in ex Jugoslavia dal 1999. Nel periodo della massima partecipazione ha contato 50 mila soldati e 39 Stati partecipanti. Oggi le nazioni presenti sono 31, per un totale di circa 10 mila militari. Italia, Usa e Germania contribuiscono con più di mille effettivi ciascuna. Gli americani avrebbero voluto che il Belpaese prendesse il controllo del comando centrale e di quello nordoccidentale, uno dei due ai quali si ridurranno gli attuali cinque comandi locali. La seconda richiesta è stata accettata. La prima è stata respinta.
Giuseppe Emilio Gay, l'ultimo dei 4 comandanti italiani tra i 14 che finora si sono succeduti alla guida della missione
Accogliere la proposta statunitense avrebbe comportato l’impiego di 200 militari in più: una spesa difficile da giustificare agli occhi dell’opinione pubblica, specie alla luce dell’attuale congiuntura economica. Quello italiano non è un caso isolato: “E’ molto difficile per i governi sostenere davanti alla gente tagli profondi ai programmi sociali, educativi e alle pensioni, ma non al budget della difesa”, ha detto al Times Anders Fogh Rasmussen, segretario generale della Nato. “E’ ovvio che anche questi bilanci saranno colpiti dalla crisi economica”.
Una missione a guida italiana sarebbe stata apprezzata dalla Serbia, in buoni rapporti con Roma e in pessime relazioni con la sua (ex) provincia ribelle. Il nostro governo, però, ha già previsto il dimezzamento del proprio contingente da 1.200 a 650 persone. E le manovre correttive allo studio in diversi Paesi europei potrebbero portare alcuni di questi a seguire la stessa strada. Non sappiamo quanto a lungo la Kfor resterà “tedesca”. Ma di sicuro molto difficilmente diventerà più “italiana”.