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Aleksandar Hemon scrive sul "New Yorker", sul "New York Times" e sulla rivista bosniaca "BH Dani"

“So di avere le carte in regola per presentarmi come un esempio di sogno americano realizzato. E sono grato all’America per molte delle cose che mi ha dato. Ma so anche che è più complicato di così, perché la mia storia è costellata di perdite che non si accordano alla morale del lieto fine”. Aleksandar Hemon è nato a Sarajevo 46 anni fa. Da dieci è cittadino americano. Da diciotto vive negli Stati Uniti. Negli States era arrivato come turista. Ma la guerra ha stravolto la sua vita.

Nel 1992 Hemon era un giornalista bosniaco con un inglese incerto. Oggi è uno scrittore (in lingua anglosassone) famoso in tutto il mondo. In Italia sono stati pubblicati la raccolta di racconti Spie di Dio (2000) e i romanzi Nowhere man (2004) e Il progetto Lazarus (2010). “Quando sono arrivato in America, mi sono dato cinque anni per riuscire a scrivere il mio primo racconto in inglese. Ce l’ho fatta dopo tre”, racconta al Corriere della Sera.

"Il progetto Lazarus" è uscito negli Stati Uniti nel 2008. In Italia finora sono state pubblicate tre opere di Hemon

A 28 anni, Aleksandar è rimasto bloccato negli Stati Uniti dallo scoppio del conflitto jugoslavo. “Non ero certo venuto per restare. Mi sono chiesto: e adesso cosa faccio?” La risposta non tarda ad arrivare. Nel corso degli anni Hemon si impegna come attivista di Greenpeace, gira in bicicletta per le strade di Chicago come corriere, lavora come libraio, studia la letteratura (e la lingua) inglese. Intanto scrive. Nel 1995 la rivista letteraria Triquarterly pubblica il suo primo racconto, “La vita e il lavoro di Alphonse Kauders”. Nel 1999 un suo scritto viene ospitato dalle pagine del New Yorker. Un anno dopo esce il suo primo libro, The question of Bruno.

Nelle opere di Hemon ricorre sempre l’episodio decisivo della sua vita: quel giorno del febbraio 1992 in cui telefonò in Bosnia e seppe della tragedia che non gli avrebbe più permesso di tornare indietro. Ne Il progetto Lazarus, appena uscito in Italia, il suo alter ego è Vladimir Brik, giovane scrittore rifugiato, che torna in patria con un amico reporter. Come Aleksandar, Vladimir è arrivato negli Stati Uniti poco prima dello scoppio delle guerre balcaniche. Oggi anche Hemon può tornare liberamente in ex Jugoslavia. Ma il Paese che ha lasciato non è più quello di diciotto anni fa.

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Zlatko Dizdarevic è un giornalista nato a Belgrado nel 1948. In Italia ha pubblicato anche "Lettere da Sarajevo" (Feltrinelli, 1998)

“Oslobodenje”, in serbo-croato, significa “liberazione”. Non è un caso che a portare questo nome sia uno dei quotidiani storici di Sarajevo, fondato dai partigiani che lottavano contro l’occupazione nazista della Jugoslavia. Purtroppo un’altra generazione di redattori della stessa testata ha dovuto vivere una guerra: ne fa parte Zlatko Dizdarevic, che ha raccontato il dramma degli anni ’90 dal suo interno, mentre si stava compiendo.

Giornale di guerra (Sellerio, 1994) è la descrizione dell’assedio di Sarajevo da parte di chi ho la vissuto. La capitale bosniaca rimase stretta nella morsa del conflitto per quasi quattro anni: “Oslobodenje” continuò a uscire ogni giorno, grazie al lavoro di circa 70 giornalisti musulmani, serbo-bosniaci e croato-bosniaci. A guidarli c’era Dizdarevic, che racconta di essere cresciuto “in una famiglia in cui ci si sentiva prima di tutto jugoslavi”. La redazione del quotidiano, insomma, era uno scrigno in cui si difendeva quella “convivenza delle diversità” che i signori della guerra volevano distruggere: ancora di più, però, era un luogo di resistenza umana, oltre che professionale, all’orrore. Continuando a credere nel loro lavoro, i giornalisti di “Oslobodenje” si ostinavano a credere nella dignità della persona. Viene in mente Se questo è un uomo di Primo Levi: il suo sforzo di ricordarsi i versi di Dante nel lager è il simbolo di tutti i tentativi di opposizione al male da parte dell’uomo. Dizdarevic non è Levi, non ha la sua stessa altezza letteraria, ma le miserie della città assediata sono le stesse dei campi di concentramento: il giornalista ci racconta le lotte per trovare l’acqua, le stragi senza senso, i piccoli gesti di ogni giorno che assumono una valenza enorme, impensabile in tempo di pace. “Considerate se questo è un uomo, che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no”: i versi della poesia che apre il capolavoro di Levi esprimono lo stesso dolore, la stessa rabbia vitale che prova Dizdarevic, che prova ogni uomo colpito da un’atrocità troppo grande per essere accettata.

La sede di "Oslobodenje", distrutta nel luglio '92. Da allora la redazione si trasferì in un rifugio antiatomico

Nel dicembre 1993, a conflitto in corso, il Parlamento europeo conferì a “Oslobodenje” il Premio Sacharov per la libertà di pensiero. Nello stesso anno gli editori Kemal Kurspahic e Gordana Knezevic furono premiati dalla World Press Review per “il loro coraggio, la loro tenacia e la loro dedizione ai principi del giornalismo”. I riconoscimenti internazionali, tuttavia, non sono bastati a diffondere a sufficienza Giornale di guerra anche in Italia, sebbene il libro sia stato tradotto da un personaggio famoso come Adriano Sofri. C’è bisogno di ritrovare un testo del genere, se si vuole capire cosa è successo a pochi chilometri da casa nostra: ce n’è bisogno, soprattutto, se si vuole comprendere quale spinta ha permesso ai Balcani di sopravvivere, quale forza d’animo animava chi ha “combattuto” la guerra schierandosi dalla parte della vita.

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Marco Luchetta, Alessandro Ota e Dario D'Angelo

Mostar, 28 gennaio 1994. Marco Luchetta, Alessandro Ota e Dario D’Angelo sono in Bosnia per la Rai. Devono girare un servizio per il Tg1 sui “bambini senza nome”, nati dagli stupri etnici o figli di genitori dispersi in guerra. Hanno scoperto una cantina dove da mesi dormono decine di persone, tra cui molti bambini. Mentre sono ancora in strada, vengono colpiti da una granata: muoiono sul colpo. Con loro c’è uno dei bimbi del rifugio, Zlatko. I corpi dei tre inviati gli fanno da scudo. Oggi è ancora vivo.

Gli occhi di Zlatko, il bimbo che sopravvisse all'esplosione di 16 anni fa

Marco Luchetta, 42 anni, faceva il giornalista. Si era fatto conoscere alla “Gazzetta dello Sport”, poi era passato alla Rai regionale del Friuli-Venezia Giulia. I tg nazionali avevano visto comparire il suo volto con l’inizio della guerra nei Balcani. Alessandro Ota, 37 anni, faceva l’operatore. Era entrato alla Rai nel 1979, poi aveva partecipato alla realizzazione di film per il cinema e per la tv. Quando scoppiò la guerra, gli venne offerto un posto da giornalista nel tg sloveno: rifiutò per amore della telecamera. Dario D’Angelo, 47 anni, faceva l’assistente di ripresa televisiva. Prima di essere assunto in Rai aveva lavorato in fabbrica: si era diplomato come perito in telecomunicazioni studiando alle scuole serali. Tutti e tre erano nati in provincia di Trieste. Tutti e tre persero la vita esattamente sedici anni fa.

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi pochi mesi dopo la strage di Mostar

Nei mesi successivi alla tragedia si è indagato per chiarire se l’esplosione fosse stata una disgrazia oppure un attentato per eliminare dei testimoni scomodi, ma l’inchiesta è stata archiviata. “L’unica conclusione – ha detto nel 2004 Daniela Schifani, moglie di Luchetta – è che sono stati vittima di un bombardamento, e quella zona era bombardata spessissimo. Sicuramente chi ha lanciato la granata sapeva che c’era la stampa: per arrivare là Marco, Alessandro e Dario avevano attraversato vari check-point con un blindato Onu”.

Dopo la morte dei tre inviati è nata una onlus intitolata a loro e a Miran Hrovatin, operatore triestino ucciso in Somalia il 20 marzo 1994 insieme alla giornalista del Tg3 Ilaria Alpi. La Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin aiuta i bambini che vivono in zone di conflitto e sono affetti da gravi forme tumorali o necessitano di un intervento chirurgico non fattibile in patria. Insieme alle loro famiglie, i piccoli vengono ospitati e curati in Italia, dove sono portati a spese della Fondazione. “Nessun bambino deve più morire per una guerra”: e se a dirlo è Zlatko, il sopravvissuto del 28 gennaio 1994, crederci diventa davvero un dovere.

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