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Incontro teso tra il cancelliere tedesco Merkel e il presidente serbo Tadic (morgenpost.de)

La Croazia è un esempio da seguire. La Serbia può imitarla, ma deve fare passi avanti sul Kosovo. Sono i due messaggi-chiave del cancelliere tedesco Angela Merkel, in visita ufficiale per la prima volta a Zagabria e Belgrado. Tutta coccole e complimenti nella capitale croata, la “donna più potente del mondo” (così l’ha definita la rivista americana Forbes) ha chiesto progressi al presidente serbo Boris Tadic, invitandolo al dialogo con la provincia ribelle se vuole continuare la marcia verso l’Europa.

Oltre 2 miliardi e mezzo di interscambio commerciale: basterebbe questo dato a spiegare l’affinità tra Germania e Croazia, che ha radici davvero molto profonde. Berlino è stata in prima fila nel riconoscere l’indipendenza di Zagabria a inizio anni ’90; il governo tedesco si impegnò a fondo per far entrare ufficialmente il nuovo Stato nello scacchiere internazionale. A vent’anni di distanza, i rapporti sono ancora saldi: la Germania è al terzo posto tra gli investitori in Croazia, preceduta solo da Austria e Olanda, e quest’anno il flusso turistico in direzione dei Balcani (già consistente) è aumentato del 15%.

A inizio anni '90 il ministro degli Esteri tedesco Genscher e il cancelliere Kohl aiutarono la Croazia a rendersi indipendente (bundestag.de)

Naturale che la Merkel abbia indicato il percorso di Zagabria verso Bruxelles come un percorso-modello, che salvo intoppi improvvisi porterà il Paese a essere il 28° membro dell’Unione europea. In realtà è come se il colloquio avuto il 22 agosto con il primo ministro Jadranka Kosor fosse un’anticipazione di quello del giorno successivo con Tadic: gli apprezzamenti rivolti alla Croazia sono inviti indiretti alla Serbia, perché rimuova gli ostacoli che ancora frenano la sua corsa verso l’Europa.

L’ostacolo, in verità, è uno solo e si chiama Kosovo. “So che un problema simile non si risolve in una notte. Ma credo che un problema simile si possa risolvere”, ha detto la Merkel di fronte al presidente serbo. Il cancelliere tedesco ha assicurato che “il posto della Serbia è in Europa, ma è necessario che ci siano progressi nei rapporti tra Belgrado e Pristina”. Equilibrista come sempre la posizione di Tadic: “La Serbia è consapevole di non poter portare nell’Unione un nuovo conflitto, ma ritiene del tutto sbagliato porre il Paese di fronte alla scelta fra Europa e Kosovo. Vogliamo una soluzione, vogliamo la libera circolazione di beni e servizi, non vogliamo congelare il conflitto. Vogliamo riprendere il dialogo con Pristina. Ma non riconosceremo mai il Kosovo“.

Belgrado, insomma, insiste nel suo tentativo di avvicinarsi a Bruxelles senza lasciare indietro Pristina, con cui Tadic intravede la possibilità di una “soluzione di compromesso” che accontenti a metà entrambi i contendenti. Una strada difficile, ma percorribile, soprattutto dopo che la Serbia ha adempiuto completamente ai suoi obblighi riguardo ai criminali di guerra, consegnando al Tribunale de L’Aja – dopo Karadzic – anche Mladic e Hadzic. Zagabria è quasi in Europa, Belgrado ancora no. Ma se vuole farcela portando con sé il Kosovo, l’attesa è inevitabile.

Fonti: Radio Radicale, Lettera 43, presseurop.eu

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Il monastero di Dajla, conteso dagli ecclesiastici italiani e croati (lavignadelsignore.blogspot.com)

Tutto per un monastero. La Chiesa cattolica si spacca sul convento di Dajla, in Istria, costruito nel ‘700 dai benedettini dell’Abbazia di Praglia, in provincia di Padova. Espropriato da Tito dopo la Seconda guerra mondiale, alla fine degli anni ’90 era stato assegnato alla locale diocesi di Pola e Parenzo. Nel 2002 i monaci veneti hanno chiesto la riconsegna dell’immobile allo Stato croato, che ha detto no: gli ecclesiastici erano già stati risarciti con un miliardo e 700 milioni di lire dopo il Trattato di Osimo del 1975, firmato proprio per porre fine alle dispute riguardanti l’Istria e l’area di Trieste.

Anche il vescovo di Pola e Parenzo, Ivan Milovan, era (ed è) contrario alla restituzione. Per questo è sceso in campo il Vaticano: lo scorso 6 luglio papa Ratzinger ha sospeso Milovan e ha fatto firmare a un commissario appositamente nominato – monsignor Santos Abril y Castellò, ex nunzio nei Balcani – un accordo che sancisce il ritorno del monastero all’Abbazia di Praglia, più indennizzo di 6 milioni di euro. Apriti cielo (è il caso di dirlo): Milovan ha chiesto aiuto alle autorità di Zagabria, e lo ha ottenuto ai massimi livelli.

Ivan Milovan, vescovo di Pola e Parenzo, si è "ribellato" a papa Ratzinger (ipress.hr)

“Nessun atto giuridico o legale può violare gli accordi di Osimo”, ha tuonato il presidente socialdemocratico Ivo Josipovic, mentre il primo ministro conservatore Jadranka Kosor ha annunciato che userà tutti i mezzi diplomatici per aiutare il vescovo di Pola. “La richiesta di un nuovo indennizzo è un tentativo mal nascosto di revisione o abrogazione del Trattato di Osimo”, ha detto senza mezzi termini Stipe Mesic, predecessore di Josipovic. La Santa Sede, dal canto suo, ha fatto sapere in una nota che ritiene la questione “di natura propriamente ecclesiastica”. Ma di fronte al richiamo agli accordi internazionali fatto dalle maggiori autorità croate, diventa difficile difendere questa posizione.

Come se ne esce, allora? Una soluzione in effetti c’è, e sembra averla trovata il ministro della Giustizia Drazen Bosnjakovic, che ha annullato la restituzione dell’edificio alla Chiesa cattolica croata avvenuta pochi anni fa: l’atto formale in questione “è da considerarsi nullo dato che fu svolto in base alla legge sui beni confiscati dalle autorità jugoslave comuniste, mentre rientrava nella materia già prima risolta con accordi internazionali”. In sostanza, il convento di Dajla non va né agli ecclesiastici croati, né a quelli vaticani: torna allo Stato, dopo averli fatti litigare ferocemente. Chissà come riderebbe Tito, se lo sapesse.

Fonti: vaticaninsider.lastampa.it, Asca-Afp, ilgazzettino.it, TMNews

Leggi anche: Croazia, l’odissea degli stranieri espropriati da Tito

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La crisi greca potrebbe ripercuotersi sui Balcani (pasudest.blogspot.com)

La bufera finanziaria potrebbe travolgere i Balcani. È l’allarme lanciato oggi da Alessandro Merli su Il Sole 24 Ore. Stretti tra le enormi difficoltà della Grecia e i (forti) scricchiolii dell’Italia, i Paesi dell’ex Jugoslavia rischiano di vedersi piovere in testa una nuova tegola: quella della crisi economica.

I timori derivano soprattutto dai forti investimenti nell’area fatti proprio da Atene negli ultimi anni. Buona parte dei sistemi bancari balcanici sono controllati da istituti di credito ellenici: un definitivo crollo dell’economia greca potrebbe avere un pericoloso “effetto domino”. A questo va aggiunto che gli Stati ex jugoslavi crescono a un ritmo inferiore di quello a cui viaggiano gli altri Paesi post-comunisti.

Jadranka Kosor, primo ministro croato, e Thomas Mirow, presidente Banca Europea Ricostruzione e Sviluppo (2space.net)

Secondo la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Bers), l’istituto nato 20 anni fa per promuovere le transizioni all’economia di mercato dopo la caduta del Muro, a fine 2011 i Balcani faranno segnare un +2,3%, contro il +4,6% di Russia, Est Europa e Caucaso. Non tutto fa pensar male, però: la stessa Bers prevede che nel 2012 la fascia compresa tra Slovenia e Macedonia crescerà del 3,6%, a fronte di un rallentamento delle altre economie ex comuniste.

“Un’escalation della crisi dell’Eurozona porrebbe seri rischi alla crescita della regione”, avverte Erik Berglof, capo economista della Bers. Il recente e improvviso aumento di tensione in Kosovo può far pensare, forse a ragione, che l’ex Jugoslavia ha preoccupazioni ben più grandi. Ma la fragilità sociale e politica dell’area renderebbe drammatica una “banale” congiuntura economica negativa.

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Fino al '91 le acque croate e slovene appartenevano allo stesso mare jugoslavo. Dopo la disgregazione non si è riusciti a tracciare un confine condiviso

Da Wikipedia: “La Slovenia richiede la cessione da parte della Croazia di alcune delle sue acque territoriali ad ovest di Umago per potere accedere direttamente alle acque internazionali. Altre controversie tra le due ex repubbliche jugoslave riguardano l’assegnazione di alcune piccole unità catastali nei pressi del monte Gorjanci e lungo il fiume Mura”. Possibile che simili dispute possano bastare a far cadere il governo sloveno e a rallentare l’ingresso in Europa della Croazia? Evidentemente sì, se è vero che entrambi i Paesi sono in fermento in vista del referendum sull’argomento che si dovrebbe tenere nel prossimo giugno. Una consultazione che potrebbe risolvere (o aggravare) un conflitto diplomatico aperto dal 1991.

Il problema del confine sloveno-croato esiste dall’inizio delle guerre jugoslave e riguarda soprattutto gli spazi marittimi che fronteggiano l’Italia, nel golfo di Trieste e – al suo interno – nella baia di Pirano. La Slovenia, che ha uno sviluppo costiero di soli 47 km, pretende un “corridoio di transito” che colleghi le proprie acque territoriali a quelle internazionali dell’Adriatico. A questa richiesta se ne aggiungono altre riguardanti le frontiere “terrestri”, ad esempio nella valle del fiume Dragogna, in Istria. La questione si è trascinata negli anni e si è aggravata nel dicembre 2008, quando la Slovenia ha posto il veto al proseguimento del processo di adesione della Croazia alla Ue finché non si sarà trovata una soluzione. Lubiana preme per un accordo politico tra i due Stati; Zagabria vorrebbe basarsi esclusivamente sul diritto internazionale. L’11 settembre scorso il primo ministro sloveno Borut Pahor e quello croato Jadranka Kosor hanno finalmente concordato l’istituzione di un organismo formato da cinque arbitri internazionali, chiamati a dirimere le controversie in modo vincolante per entrambi i Paesi.

Borut Pahor e Jadranka Kosor, capi di governo di Slovenia e Croazia: il loro accordo sui confini potrebbe venire sottoposto a referendum

Il patto è stato ratificato pochi giorni fa dal parlamento sloveno, che il 3 maggio si pronuncerà nuovamente sullo stesso tema. Quasi certamente verrà indetto un referendum, che l’opposizione vuole usare per bocciare un accordo ritenuto “sconveniente” per il Paese (ma utile per indebolire il governo in carica). Fino a pochi mesi fa Croazia e Slovenia erano d’accordo solo sulla data di riferimento: il 25 giugno 1991, giorno in cui entrambi gli Stati dichiararono l’indipendenza dalla morente Jugoslavia. Lubiana e Zagabria, però, fino allo scorso settembre davano interpretazioni diverse della situazione dell’epoca, in cui i confini ufficiali non coincidevano e una frontiera marittima non esisteva neppure. Oggi le cose sembrano essere cambiate, principalmente per motivi di opportunità: che si voglia entrare in Europa, o che si desideri un accesso diretto alle acque internazionali, l’ultima cosa da fare per raggiungere i propri obiettivi è continuare una disputa durata già troppo a lungo.

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Ivo Josipovic, 52 anni, è il nuovo presidente della Croazia

Insegna all’università di Zagabria e fa il musicista: sogna di comporre un’opera lirica sui Beatles. Ivo Josipovic è il nuovo presidente della Croazia. Il candidato socialdemocratico ha vinto col 60,3% il ballottaggio con Milan Bandic, sindaco di Zagabria, uscito dal partito dell’avversario pochi mesi fa. Il nuovo capo dello Stato dovrà guidare il Paese verso l’ingresso nell’Unione europea, previsto per il 2012.

Un nodo delicato è quello dei rapporti con la Serbia, anch’essa in cammino verso Bruxelles. Mentre a Zagabria si contavano le schede elettorali, da Belgrado partiva un duro attacco al predecessore di Josipovic. “Mesic lascia una pesante eredità al nuovo presidente, con cui speriamo di poter stabilire relazioni diverse”, ha detto il capo dello Stato serbo Boris Tadic, che rimprovera al suo ormai ex omologo di aver esaltato l’indipendenza del Kosovo e di aver ridotto da otto a sette anni la pena del criminale di guerra croato Sinisa Rimac. I conflitti degli anni ’90 sono un tema ancora capace di scatenare crisi diplomatiche tra i Paesi balcanici, soprattutto per il rifiuto dei governi di assumersi ciascuno la propria parte di responsabilità. Lo stesso Josipovic, ad esempio, minimizza le colpe del presidente-dittatore croato Franjo Tudjman: “Con lui abbiamo avuto parzialmente un’esperienza autoritaria, ma non comparabile ai regimi sudamericani”, dice al Corriere della Sera.

Danilo Turk e Boris Tadic, presidenti di Slovenia e Serbia, prossimi interlocutori di Josipovic

Non sembra avere preoccupazioni sulla convivenza con Josipovic  Jadranka Kosor, capo del governo di centro-destra croato. “Lavorerò col nuovo presidente”, dice il primo ministro, già abituato con Mesic alla coabitazione con un esponente dello schieramento opposto. Buona accoglienza per il neo-eletto anche da Giancarlo Galan e Renzo Tondo, presidenti rispettivamente di Veneto e Friuli Venezia Giulia: i governatori si dicono certi di poter collaborare positivamente con Zagabria per il progetto dell’Euroregione, una struttura di cooperazione transfrontaliera che coinvolgerà anche Austria e Slovenia. Quest’ultima e la Croazia negli ultimi tempi hanno avuto alcune controversie sul confine tra i due Stati: nei prossimi mesi Josipovic dovrà impegnarsi anche per migliorare le relazioni con Lubiana.

Il vero avversario del nuovo presidente, comunque, sarà la crisi, che nei Balcani ha colpito più duramente che altrove. Nello scorso ottobre il salario medio nel Paese era 725 euro. Il rapporto tra debito e PIL ha superato il 120%: per capirsi, nel 2007 quello italiano – il più alto dell’area euro – era del 104%. Le istituzioni croate dovranno lavorare duramente per ridurre il deficit, condizione indispensabile per entrare in Europa. Lo scenario non è semplice, ma Zagabria deve farcela: perdere il treno per Bruxelles vorrebbe dire esporre a enormi rischi la stabilità economica e politica del Paese.

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Ivo Josipovic, 52 anni, candidato alla presidenza della Croazia

Il prossimo presidente della Croazia sarà un socialdemocratico. O un ex socialdemocratico. Il primo turno delle elezioni del 27 dicembre ha decretato la vittoria di Ivo Josipovic, candidato del Partito socialdemocratico di Croazia (SDP), con il 32% delle preferenze. Al ballottaggio del 10 gennaio si batterà contro l’indipendente Milan Bandic, sindaco di Zagabria, uscito dall’SDP pochi mesi fa: per lui si è espresso il 15% dei votanti.

Il grande sconfitto è il candidato conservatore Andrija Hebrang, che non ha superato il 12% dei voti. Il suo partito, l’Unione democratica croata (HDZ), guida il governo nazionale con il primo ministro Jadranka Kosor. L’esecutivo di centrodestra dovrà continuare a convivere con un presidente della Repubblica di centrosinistra, dopo i dieci anni da capo dello Stato di Stipe Mesic, anch’egli esponente di un gruppo di opposizione, il Partito del popolo croato – Liberali democratici (HNS-LD).

Da sinistra: Milan Bandic, Stipe Mesic e Ivica Racan, primo ministro dal 2000 al 2003

Mesic è stato l’ultimo presidente della Repubblica socialista federale di Jugoslavia, prima della disgregazione degli anni ’90. Esponente di primo piano dell’HDZ, ne uscì durante la guerra, in disaccordo con la politica dell’allora presidente croato Franjo Tudjman. Nel 1997 entrò nel Partito popolare croato, formazione di centro-sinistra, da cui poi è nato HNS-LD. Mesic appoggia il candidato socialdemocratico Josipovic, favorito per la vittoria al ballottaggio.

Comunque vada il secondo turno, una cosa è certa: chi vincerà dovrà gestire al meglio l’entrata del Paese nell’Unione europea. Sull’ingresso in Europa, previsto per il 2012, sono tutti d’accordo: Josipovic, Bandic e anche il primo ministro conservatore, Jadranka Kosor. L’adesione alla Ue è un traguardo troppo importante per farne un oggetto della contesa elettorale: quella “battaglia della luce contro le tenebre”, come l’ha definita Josipovic, che darà alla Croazia il suo nuovo presidente.

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