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Uno dei grandi cimiteri musulmani che sovrastano Sarajevo. "Benevolencia" aiutò anche i musulmani durante la guerra

«All’inizio della guerra alcuni bambini ebrei vennero da noi e iniziammo a tenere una scuola domenicale. Ci chiesero: “Il mio migliore amico è musulmano, o croato”. Posso portarlo con me?’ La nostra risposta fu: “Sì”».

Dragica Levi è un’attivista di “Benevolencia”, un’associazione ebraica che aiutò i cittadini di Sarajevo durante l’assedio degli anni ’90. Nel 1993 distribuì oltre la metà dei medicinali che circolavano in città. Gestiva un centro di primo soccorso, tre farmacie e assisteva a domicilio gli anziani in gravi condizioni di salute. Distribuiva pasti a chi li chiedeva, ebrei e non. Un impegno premiato nel 1994 con il Wateler Peace Prize, un riconoscimento olandese di importanza internazionale.

La Biblioteca Nazionale di Sarajevo, dove i serbi bruciarono oltre 2 milioni di libri

“La Benevolencia” nacque nel 1892 ed operò fino alla seconda guerra mondiale come Società Ebraica Culturale ed Educativa. Dopo il conflitto, le società organizzate su base nazionale vennero proibite, e l’associazione smise di agire. Uno stop terminato un secolo dopo la sua fondazione, nel 1992, quandò ripartirono le attività e nacque anche il sotto-club femminile “Bohoreta”, ispirato a Laura Papo-Bohoreta, un’intellettuale ebrea di Sarajevo morta in un campo di concentramento nazista.

“Verso la fine del massacro […] ho visto, filmato e raccontato dell’esodo delle donne e dei bambini di quella importante e storica comunità ebraica verso Israele. […] A Sarajevo rimasero tutti i maschi ebrei adulti. A mandare avanti Benevolencia e a saldare, con sacrificio e vite umane, un conto di solidarietà che sentivano di dover pagare con la storia”. Ennio Remondino, inviato Rai nei Balcani durante la guerra, ha descritto così questa storia sul sito dell’Agenzia Multimediale Italiana. “Una storia semisconosciuta”, dice Remondino. E che vale la pena ricordare.

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Zlatko Dizdarevic è un giornalista nato a Belgrado nel 1948. In Italia ha pubblicato anche "Lettere da Sarajevo" (Feltrinelli, 1998)

“Oslobodenje”, in serbo-croato, significa “liberazione”. Non è un caso che a portare questo nome sia uno dei quotidiani storici di Sarajevo, fondato dai partigiani che lottavano contro l’occupazione nazista della Jugoslavia. Purtroppo un’altra generazione di redattori della stessa testata ha dovuto vivere una guerra: ne fa parte Zlatko Dizdarevic, che ha raccontato il dramma degli anni ’90 dal suo interno, mentre si stava compiendo.

Giornale di guerra (Sellerio, 1994) è la descrizione dell’assedio di Sarajevo da parte di chi ho la vissuto. La capitale bosniaca rimase stretta nella morsa del conflitto per quasi quattro anni: “Oslobodenje” continuò a uscire ogni giorno, grazie al lavoro di circa 70 giornalisti musulmani, serbo-bosniaci e croato-bosniaci. A guidarli c’era Dizdarevic, che racconta di essere cresciuto “in una famiglia in cui ci si sentiva prima di tutto jugoslavi”. La redazione del quotidiano, insomma, era uno scrigno in cui si difendeva quella “convivenza delle diversità” che i signori della guerra volevano distruggere: ancora di più, però, era un luogo di resistenza umana, oltre che professionale, all’orrore. Continuando a credere nel loro lavoro, i giornalisti di “Oslobodenje” si ostinavano a credere nella dignità della persona. Viene in mente Se questo è un uomo di Primo Levi: il suo sforzo di ricordarsi i versi di Dante nel lager è il simbolo di tutti i tentativi di opposizione al male da parte dell’uomo. Dizdarevic non è Levi, non ha la sua stessa altezza letteraria, ma le miserie della città assediata sono le stesse dei campi di concentramento: il giornalista ci racconta le lotte per trovare l’acqua, le stragi senza senso, i piccoli gesti di ogni giorno che assumono una valenza enorme, impensabile in tempo di pace. “Considerate se questo è un uomo, che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no”: i versi della poesia che apre il capolavoro di Levi esprimono lo stesso dolore, la stessa rabbia vitale che prova Dizdarevic, che prova ogni uomo colpito da un’atrocità troppo grande per essere accettata.

La sede di "Oslobodenje", distrutta nel luglio '92. Da allora la redazione si trasferì in un rifugio antiatomico

Nel dicembre 1993, a conflitto in corso, il Parlamento europeo conferì a “Oslobodenje” il Premio Sacharov per la libertà di pensiero. Nello stesso anno gli editori Kemal Kurspahic e Gordana Knezevic furono premiati dalla World Press Review per “il loro coraggio, la loro tenacia e la loro dedizione ai principi del giornalismo”. I riconoscimenti internazionali, tuttavia, non sono bastati a diffondere a sufficienza Giornale di guerra anche in Italia, sebbene il libro sia stato tradotto da un personaggio famoso come Adriano Sofri. C’è bisogno di ritrovare un testo del genere, se si vuole capire cosa è successo a pochi chilometri da casa nostra: ce n’è bisogno, soprattutto, se si vuole comprendere quale spinta ha permesso ai Balcani di sopravvivere, quale forza d’animo animava chi ha “combattuto” la guerra schierandosi dalla parte della vita.

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