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Un mezzo della forza internazionale a guida Nato a Pristina nel 2000 (foto Michelle Walz, http://bit.ly/1kuY8rA)

Un mezzo della forza internazionale a guida Nato a Pristina nel 2000 (foto Michelle Walz, http://bit.ly/1kuY8rA)

Il Kosovo sembra somigliare sempre di più a uno Stato vero e proprio. Un mese fa il primo ministro ha annunciato l’istituzione di un esercito di 5mila militari. Qualche giorno fa gli Stati Uniti hanno rinnovato il loro appoggio alla regione che si è dichiarata indipendente nel 2008. Intanto il comandante italiano della missione Nato parla di progressi ottenuti grazie al dialogo con la Serbia.

Al momento la sicurezza kosovara è gestita da 2.500 militari con equipaggiamento leggero. Presto potrebbero raddoppiare ed essere armati come soldati regolari. Belgrado ha già chiesto che le truppe non possano entrare nel nord della regione – a maggioranza serba – senza l’ok dell’Alleanza Atlantica. Contro la creazione dell’esercito si sarebbe schierato il presidente della Repubblica Ceca, dicendo di temere un ritorno dell’UCK, forza attiva nella zona negli anni ’90 e accusata di terrorismo anche da Washington.

La Casa Bianca, così come Praga, hanno accettato da anni l’indipendenza di Pristina, e nei giorni scorsi Barack Obama è tornato a sottolineare il concetto, anche se indirettamente. Durante la sua visita a Bruxelles, il presidente ha definito “illegittimo” il referendum che si è tenuto in Crimea, ricordando invece che in Kosovo si tenne una consultazione “organizzata nel rispetto del diritto internazionale”. L’affermazione è vera a metà: un voto popolare con osservatori stranieri c’è stato, ma nel 1992, sedici anni prima della secessione.

Oggi il generale Salvatore Farina, comandante della missione Nato nella regione, parla di situazione “soddisfacente”. Descrive miglioramenti nel processo elettorale, nell’organizzazione della polizia, nel controllo dei confini. Ammette che continuano a esserci violenze, ma le definisce “episodi”. Ricorda che ora a Pristina e dintorni ci sono 5mila militari dell’Alleanza, un decimo di quanti ce erano nel 1999. Ed esattamente quanti dovrebbero essere i futuri soldati regolari del Kosovo.

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Una donna serba al voto a Mitrovica, nord Kosovo (EPA/DJORDJE SAVIC)

Una donna serba vota a Mitrovica, città nord-kosovara divisa etnicamente a metà (EPA/DJORDJE SAVIC)

Intimidazioni e violenze. Queste due parole, agli occhi della stampa internazionale, riassumono i tratti fondamentali delle elezioni municipali kosovare del 3 novembre. Il voto era un test per i rapporti con la Serbia, migliorati negli scorsi mesi. La tensione non è stata alta ovunque, ma l’attesa era soprattutto per capire se minacce e incidenti si sarebbero verificati, e l’impressione è che siano stati significativi.

Ad aprile Belgrado e Pristina hanno firmato un importante accordo in sede europea. La prima ha concesso più autonomia alla seconda, e in cambio si è avvicinata alla Ue. Subito sono arrivate proteste dal nord del Kosovo, dove vivono molti serbi. Nel resto della regione la maggioranza è albanese. Il boicottaggio delle elezioni era stato annunciato proprio da chi non è contento dell’intesa firmata a Bruxelles: persone che dicono di sentirsi abbandonate dalla Serbia, che pure ancora non riconosce l’indipendenza di Pristina.

Domenica le violenze peggiori ci sono state a Mitrovica, città nord-kosovara divisa a metà tra albanesi e serbi. Uomini col passamontagna sono entrati in almeno tre seggi, picchiando i presenti e distruggendo le urne. In altre zone della regione sono state segnalate intimidazioni ai serbi che andavano a votare: al nord è andato alle urne meno del 10% degli aventi diritto. La giornata elettorale ha comunque avuto dei risultati. Dieci sindaci sono stati eletti al primo turno, gli altri (tra cui quello della capitale) saranno scelti al ballottaggio il 1° dicembre.

Dopo gli incidenti il segretario della Nato ha escluso che il contingente kosovaro sarà ridotto a breve. Belgrado non è stata tenera coi sabotatori: il ministro che si occupa del Kosovo li ha accusati di aver perso un’occasione per decidere del loro futuro. La Serbia pare aver sempre meno voglia di rivendicare il controllo della sua ex provincia.

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Štefan Füle è commissario europeo per l'Allargamento dal 2010 (tap.info.tn)

Štefan Füle, commissario Ue per l’Allargamento. Ha lavorato anche all’Onu e alla Nato (tap.info.tn)

Stavolta l’Europa è intervenuta in ex Jugoslavia con successo. Grazie alla mediazione di Bruxelles l’opposizione socialdemocratica macedone è tornata in parlamento, dopo due mesi in cui era rimasta fuori per protesta. Nel mirino la finanziaria approvata a dicembre, e il metodo con cui il governo l’aveva fatta passare. I contestatori dicono di aver accettato di rientrare in aula perché hanno ottenuto garanzie che si andrà al voto anticipato: il partito di maggioranza, però, nega che sia stata fissata una data.

L’uomo che ha sbloccato la situazione è Štefan Füle. Commissario europeo per l’Allargamento dal 2010, viene da un Paese ex comunista, come la Macedonia: la Repubblica Ceca. L’estensione dell’Unione è un tema molto caldo per i Balcani, tra gli Stati in via di adesione (Croazia), quelli candidati (Macedonia, Montenegro, Serbia) e i candidati potenziali (Albania, Bosnia e Kosovo). Skopje ha ottenuto lo status di candidata potenziale nel 2003, e quello di candidata nel 2005: in questi otto anni non è riuscita a fare il salto successivo, quello che invece ha fatto Zagabria, e che è l’ultimo passo prima dell’ingresso ufficiale.

L’ammorbidimento del braccio di ferro tra governo e opposizione fa piacere e Bruxelles, che ha convinto i socialdemocratici anche a non boicottare le amministrative del 24 marzo, come avevano minacciato di fare se non fossero state accorpate alle politiche. Alla fine si andrà davvero al voto anticipato? Un primo segnale potrebbe arrivare proprio dalle elezioni locali. Se i socialdemocratici otterranno un buon risultato, potranno pretendere di andare alle urne anche a livello nazionale con maggior forza. Altrimenti il rischio è che la loro protesta perda peso. Per la gioia del governo di centrodestra.

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La rimozione del monumento a Presevo, nel sud della Serbia (forum.net.hr)

La rimozione del monumento a Presevo, nel sud della Serbia, a 350 km da Belgrado (forum.net.hr)

Era stato posizionato a novembre, e oggi la polizia serba l’ha rimosso. Siamo a Presevo, cittadina vicina al confine kosovaro, e parliamo di un monumento che onorava 27 guerriglieri albanesi uccisi dalle forze governative una decina di anni fa. L’azione dei militari di Belgrado è avvenuta nell’apparente indifferenza della popolazione, in un momento in cui i rapporti con Pristina sono ancora difficili.

L’Esercito di Liberazione di Presevo, Medveda e Bujanovac (altre località serbe vicine alla frontiera) condusse una serie di attacchi contro poliziotti, soldati e civili serbi tra 2000 e 2001. Voleva l’annessione della zona al Kosovo, che solo nel 2008 si sarebbe auto-dichiarato indipendente. Il gruppo combattente, definito da Belgrado “organizzazione terrorista”, interruppe le sue azioni dopo un negoziato mediato dalla Nato. A rimuovere il monumento sono arrivati 200 poliziotti, in una città che conta poche decine di migliaia di abitanti. “Nessuno è più forte dello Stato”, ha detto con enfasi il primo ministro Dacic.

Questa vicenda, forse piccola, magari – speriamo – senza conseguenze negative in termini di tensione tra etnie nella popolazione locale, si inserisce in un contesto in cui l’Europa si aspetta passi avanti nel dialogo tra Serbia e Kosovo. Da marzo 2012 Belgrado è ufficialmente candidata a entrare nell’Unione. Pristina è un gradino più in basso, in quanto “candidata potenziale”. Per entrambe risolvere le controversie è molto importante, se si vuole avanzare verso Bruxelles. Secondo gli ultimi sondaggi i cittadini serbi continuano a preferire il “no” all’indipendenza del Kosovo all’ingresso di Belgrado nella Ue. Nei prossimi mesi i politici che li rappresentano dovranno decidere se sposare in pieno questa linea, e accettarne gli effetti sul piano dei rapporti internazionali.

FONTI: Ansa, Repubblica, UPI.com, Osservatorio Balcani e Caucaso

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Branislav Milinkovic aveva 52 anni. Era ambasciatore alla Nato dal 2009 (nld.com.vn)

Branislav Milinkovic aveva 52 anni. Era ambasciatore alla Nato dal 2009 (nld.com.vn)

Un salto nel vuoto difficile da spiegare. Pochi giorni fa l’ambasciatore serbo alla Nato, Branislav Milinkovic, è morto all’aeroporto di Bruxelles. È caduto da un piano all’altro di un parcheggio, dove era con dei colleghi. La procura della città ha dichiarato chiuse le indagini praticamente subito, parlando di evidente suicidio. Di cui però non si conoscono i motivi.

La vittima aveva 52 anni. Già attivo sui temi di politica estera negli anni ’80, nel decennio successivo si era schierato con l’opposizione, quando al potere c’era Milosevic. Solo dopo la fine della sua era, nel 2000, era stato nominatore ambasciatore all’Osce, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Quattro anni dopo è diventato inviato speciale alla Nato, dove dal 2009 è diventato ambasciatore.

La sera del 4 dicembre era all’aeroporto di Bruxelles per accogliere una delegazione proveniente dalla Serbia. Improvvisamente si sarebbe lanciato di sotto, senza una ragione apparente. Nessuna delle persone che lo conoscevano, e che hanno parlato con i giornalisti, dice di aver notato segni di depressione negli ultimi tempi. Qualcuno ha azzardato l’ipotesi del disagio per la vita lontano dalla moglie, funzionaria dell’ambasciata serba a Vienna. Nient’altro. Come ha detto un diplomatico di Belgrado al quotidiano serbo Kurir, “è possibile che fosse caduto in depressione e che nessuno se ne sia accorto”. La chiusura delle indagini pare non lasciare spazio a novità sulle modalità della morte. Ma sui motivi sembrano esserci ancora molte cose da scoprire.

FONTI: Ansa, Secolo XIX, Lettera 43

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Hasan Muratovic è stato primo ministro bosniaco e rettore dell’università di Sarajevo (italiaglobale.it)

Hasan Muratovic è stato il primo capo di governo bosniaco dopo la guerra degli anni ’90. Durante il conflitto era stato ministro degli Interni; tra ’96 e ’97 è stato primo ministro, poi è stato per due anni  vicepresidente del Consiglio d’Europa e per quattro ambasciatore in Croazia. Tra 2004 e 2006 è stato rettore dell’Università di Sarajevo, dove insegna tuttora alla facoltà di Economia. Qualche giorno fa era in Italia per una conferenza organizzata dall’organizzazione umanitaria Intersos. Quella che segue è la trascrizione dell’intervista che gli ho fatto per la trasmissione “Esteri” di Radio Popolare, andata in onda ieri, 29 ottobre.

Tra i temi della conferenza a cui ha partecipato in Italia c’era la prevenzione delle guerre. Quella in Bosnia poteva essere evitata?

Sì, nello stesso modo in cui fermata: con gli attacchi della Nato contro la Serbia, contro le sue infrastrutture, contro il suo esercito. Questo però fu fatto solo dopo 40 mesi di guerra. Il conflitto avrebbe potuto essere fermato subito, ma invece della Nato arrivarono le forze Onu, che si proclamarono neutrali e portarono una pace che non esisteva.

Lei partecipò alla preparazione dei negoziati di Dayton, che posero fine alla guerra. A distanza di 17 anni, come giudica l’accordo che uscì da quei negoziati?

Avrebbe dovuto essere migliore. La parte che riguardava lo stop alle armi funzionò rapidamente ed ebbe molto successo. La parte “civile”, dai diritti umani alla ricostruzione della Bosnia, non ha funzionato bene. Ancora oggi abbiamo problemi nell’applicarla. La struttura del nostro Stato non ha mai iniziato a funzionare. In questi anni si è sviluppata, ma non può funzionare sotto una Costituzione che è stata scritta a Dayton e non è mai stata accettata in parlamento.

Al momento qual è la situazione politica del Paese?

Probabilmente la peggiore dai tempi di Dayton. Abbiamo avuto le elezioni due anni fa. Ci sono voluti 17 mesi per formare il governo, e pochi giorni fa è caduto di nuovo. Anche a livello locale ci sono problemi, dovuti alla Costituzione e alla composizione dei governi locali. Il 13 ottobre ci sono state le amministrative: la maggior parte dei cantoni non è andata alle urne, perché i partiti si sono rifiutati di votare con la legge attuale.

A che punto è il processo di adesione della Bosnia all’Unione europea?

Si è praticato fermato 4 anni fa, a causa dei problemi tra i partiti. Ci stiamo muovendo molto, molto lentamente verso Bruxelles. Eppure il solo modo di risolvere i nostri problemi è entrare nell’Unione. Finchè siamo fuori, non vedo speranze né per la nostra politica, né per l’economia, né per la società. Bruxelles dovrebbe essere più comprensiva con noi, come ha fatto – per esempio – con Bulgaria e Romania. Siamo un Paese molto piccolo, come economia e non solo. Se l’Unione mostra più comprensione, possiamo integrarci velocemente.

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I primi due da sinistra sono l'ad Fiat Sergio Marchionne e il presidente serbo Boris Tadic: a dicembre è andato al Lingotto a chiedere il rispetto degli impegni presi da Fiat in Serbia

Da L’Unità di sabato 31 luglio, pagina delle lettere:

“A Kragujevac nel 2008 ho visto la busta paga di un operaio della Zastava disoccupato a cui veniva proposto un lavoro socialmente utile, spazzare le strade e fare un po’ di manutenzione del verde, all’incredibile cifra di 83 centesimi orari. […]. Non mi meraviglia, quindi, sapere che a Kragujevac la gente farebbe carte false per avere un posto in Fiat Serbia, il nuovo nome della Zastava. Non mi meraviglia che il governo serbo dia 300 milioni di euro alla Fiat, purché parta con la produzione; non mi meraviglia che la Banca europea dia 600 milioni, sempre alla Fiat e sempre per lo stesso motivo; non mi stupisce che il Comune di Kragujevac […] sia disponibile ad esentare per dieci anni da qualunque tributo la Fiat Serbia purché faccia partire in città la produzione automobilistica. Mi meraviglia invece che il signor Sergio Marchionne ci venga a raccontare che va in Serbia, e non sa se rimarrà in Italia, perché qui i sindacati sono poco seri e pretendono troppo. No. In Serbia Marchionne ci va perché va a fare profitti sulle disgrazie e sulle miserie degli altri: va a fare liberismo sulla pelle degli schiavi”. Firmato: Maurizio Angelini.

Kragujevac, 210 mila abitanti, dista otto ore di macchina da Belgrado: 140 km di autostrada in direzione Skopje-Salonicco

Il 30 aprile 2008 Fiat e governo serbo hanno creato una joint venture, la Fiat Automotive Serbia, che ha assorbito il settore auto del colosso Zastava. Obiettivi fissati per il 2012: 2 mila 500 dipendenti e 220 mila vetture prodotte in un anno. Per ora i dipendenti sono mille. Gli altri 1.500 che lavoravano in Zastava saranno a libro paga dello Stato fino a quando la crescita produttiva non consentirà nuove assunzioni. Ma perché Fiat va in Serbia? Perché l’ad Sergio Marchionne ha deciso di spostare la produzione della monovolume L0 da Mirafiori a Kragujevac?

Innanzitutto perché nei Balcani può dare agli operai stipendi nettamente inferiori: 400 euro contro i 1.100-1.200 di chi lavora nello stabilimento torinese. In secondo luogo, perché Belgrado garantisce il pagamento della bonifica dell’impianto, inquinato da 370 tonnellate di diossine e altri veleni a causa dei bombardamenti Nato del ’99. Inoltre, per ogni dipendente assunto, la Fiat riceverà fino a 10 mila euro di finanziamento pubblico. Infine, da qui al 2018 il Lingotto non pagherà tasse né al governo di Belgrado, né al Comune di Kragujevac.

Un modello della Yugo, la storica vettura prodotta dalla Zastava, nata nel 1853. Due anni fa Fiat ha acquisito il suo settore auto

“Eravamo, siamo e saremo la città dell’automobile. Eravamo, siamo e saremo figli della Fiat”, dice con enfasi il sindaco Veroljub Stevanovic. La sua amministrazione vuole far costruire un maxi-monumento alla Fiat: “Un’automobile su una piattaforma girevole nella seconda rotonda all’ingresso del paese”, precisa il primo cittadino. Gli abitanti di Kragujevac, quarta città della Serbia a 140 km da Belgrado, salutano ovviamente con favore l’investimento deciso da Marchionne. Nessuno pensa che il gruppo Fiat venga a fare la carità. Ma i soldi del Lingotto sono una bella boccata d’ossigeno per una città colpita a morte dalla guerra.

Boris Djoric lavorava per la Zastava fino agli anni ’90. Poi è iniziata la disoccupazione, per lui come per decine di migliaia di altre persone. “So che sono uno strumento – dice a La Repubblica – non sono uno stupido. Fiat è qui per guadagnare, non per migliorare la mia vita. Ci pagano poco, in fabbrica tra di noi ci lamentiamo. E magari tra 15 anni perderemo il lavoro a favore di una fabbrica a basso costo in Africa. Ma dopo tutto quello che ho passato non penso al domani. E mi tengo stretti i miei 400 euro”. La chiave del “successo” di Marchionne, e del dramma di Mirafiori, è tutta qui.

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Il ministro della Difesa Ignazio La Russa al Corriere della Sera: "Se contrasta con la riduzione del contingente nei Balcani, il comando centrale del Kosovo è un problema"

L’Italia rinuncia al comando della Kfor. La Kosovo force, la forza militare internazionale diretta dalla Nato per garantire la stabilità e la ricostruzione dell’area, è a guida tedesca dal settembre 2009. Negli ultimi mesi gli Stati Uniti hanno corteggiato il nostro Paese per chiedergli di assumere le redini della missione. La crisi economica ha spinto il governo a rifiutare. Berlusconi intende aumentare i militari in Afghanistan, riducendo allo stesso tempo quelli inviati nei Balcani.

La Kfor è attiva in ex Jugoslavia dal 1999. Nel periodo della massima partecipazione ha contato 50 mila soldati e 39 Stati partecipanti. Oggi le nazioni presenti sono 31, per un totale di circa 10 mila militari. Italia, Usa e Germania contribuiscono con più di mille effettivi ciascuna. Gli americani avrebbero voluto che il Belpaese prendesse il controllo del comando centrale e di quello nordoccidentale, uno dei due ai quali si ridurranno gli attuali cinque comandi locali. La seconda richiesta è stata accettata. La prima è stata respinta.

Giuseppe Emilio Gay, l'ultimo dei 4 comandanti italiani tra i 14 che finora si sono succeduti alla guida della missione

Accogliere la proposta statunitense avrebbe comportato l’impiego di 200 militari in più: una spesa difficile da giustificare agli occhi dell’opinione pubblica, specie alla luce dell’attuale congiuntura economica. Quello italiano non è un caso isolato: “E’ molto difficile per i governi sostenere davanti alla gente tagli profondi ai programmi sociali, educativi e alle pensioni, ma non al budget della difesa”, ha detto al Times Anders Fogh Rasmussen, segretario generale della Nato. “E’ ovvio che anche questi bilanci saranno colpiti dalla crisi economica”.

Una missione a guida italiana sarebbe stata apprezzata dalla Serbia, in buoni rapporti con Roma e in pessime relazioni con la sua (ex) provincia ribelle. Il nostro governo, però, ha già previsto il dimezzamento del proprio contingente da 1.200 a 650 persone. E le manovre correttive allo studio in diversi Paesi europei potrebbero portare alcuni di questi a seguire la stessa strada. Non sappiamo quanto a lungo la Kfor resterà “tedesca”. Ma di sicuro molto difficilmente diventerà più “italiana”.

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Joze Pirjevec è stato candidato al parlamento sloveno coi liberaldemocratici di centrosinistra

Per andare “oltre” la guerra bisogna capirla. Lo sanno i tedeschi, che hanno compiuto decenni di autoanalisi dopo gli orrori nazisti. Lo sanno gli italiani, che invece non si sono mai confrontati seriamente col passato fascista. Lo sanno, probabilmente, anche le popolazioni dei Balcani, che stanno ricostruendo le loro società sulle macerie degli anni ‘90. Le guerre jugoslave (Einaudi, 2001), saggio dello storico Joze Pirjevec, ci porta nel cuore dei conflitti che hanno colpito Croazia, Serbia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo: un’opera preziosa per comprendere quali ferite hanno subito questi Stati e quali sono i fantasmi con cui ancora oggi devono fare i conti.

Dalle manovre politiche ai campi di battaglia, dai contrasti sociali alle diversità religiose, non c’è aspetto che venga trascurato dall’autore, abile nell’intrecciare gli scenari internazionali con le realtà locali. La lenta macchina burocratica delle Nazioni Unite e le miserie dei campi di concentramento attivi in ex Jugoslavia ci vengono descritte con la stessa dovizia dei particolari, nella consapevolezza che quanto è accaduto è stata la somma di fratture interne e pressioni esterne all’area balcanica. La ricchezza della bibliografia, che comprende testate giornalistiche slave, saggi di analisti anglosassoni, materiale raccolto negli archivi di tutta Europa, è la base di un metodo storiografico intelligente, che ricompone il mosaico degli eventi servendosi di moltissime fonti diverse e complementari. E’ anche grazie a questa eterogeneità che l’opera ha un certo ritmo: la varietà di voci e storie rende scorrevoli le oltre 700 pagine del libro, specie se l’argomento è già di per sé appassionante per chi legge. Dai primi sussulti in Slovenia nel 1991, ai bombardamenti Nato su Belgrado nel 1999, sono tante le verità che si scoprono nel corso della lettura, un viaggio appassionante in un periodo cruciale per la storia e il presente degli Stati nati dalla disgregazione della Jugoslavia.

Gaetano Quagliariello, storico e senatore del Pdl, ha vinto il Premio Acqui Storia nel 2004, due anni dopo Joze Pirjevec con "Le guerre jugoslave"

Nato a Trieste 69 anni fa, Pirjevec insegna Storia dei Paesi slavi nell’università del capoluogo friulano. Di famiglia slovena, ha compiuto molti studi sui Paesi dell’Est Europa, in particolare su quelli balcanici. In Le guerre jugoslave, pur adottando un approccio rigorosamente storiografico, il professore è tutt’altro che “obiettivo”: dal testo traspare la sua visione degli eventi, ma non si tratta di partigianeria. Le sue opinioni non sono il frutto di una preferenza per l’una o l’altra fazione, ma di un’osservazione lucida della realtà. Pirjevec non distorce i fatti per adattarli al proprio pensiero, ma elabora un pensiero a partire dai fatti che descrive: da vero storico, non si nasconde dietro una comoda neutralità, ma cerca di dare un’interpretazione degli avvenimenti, una chiave di lettura che aiuti a comprendere ciò che è successo. Un atteggiamento intellettuale che è la prima qualità di un libro importante per elaborare costruttivamente il lutto delle guerre balcaniche degli anni ’90.

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L'ex generale John Sheehan. Un collega olandese gli avrebbe detto che furono i soldati omosessuali a far cadere Srebrenica

Non bastano le farneticazioni del massacratore Radovan Karadzic, che definisce la strage di Srebrenica “un’invenzione”. Ora anche dagli Stati Uniti arrivano parole offensive sull’eccidio del luglio 1995. Per John Sheehan, ex comandante Nato, se i soldati delle Nazioni Unite non bloccarono lo sterminio fu anche per colpa dei “gay dichiarati” presenti tra i militari olandesi. La loro scarsa virilità li avrebbe indotti a non intervenire, mentre venivano uccisi circa 8 mila musulmani. L’ennesimo sproloquio da parte di un personaggio pubblico su una tragedia che richiederebbe ben altra delicatezza e sobrietà.

Alla Commissione difesa del Senato Usa si discute la possibilità di ammettere ufficialmente gli omosessuali nelle forze armate. Al momento lo slogan dominante nell’ambiente è “don’t ask, don’t tell” (non chiedere, non dire): i gay possono arruolarsi, purché non manifestino esplicitamente i loro orientamenti sessuali. Nel dibattito interviene Sheehan, che argomenta così il suo parere contrario: “Il crollo dell’Unione sovietica ha spinto gli eserciti europei, compreso quello olandese, a credere che non ci fosse più bisogno di persone dalla forte capacità di combattimento. Quindi hanno cominciato ad allargare le maglie del reclutamento, ammettendo anche i gay dichiarati”. Che, ovviamente, hanno indebolito le truppe.

Il presidente della Commissione Carl Levin è sbigottito. Per sgombrare il campo da possibili equivoci, chiede all’ex comandante: “I generali olandesi le dissero che Srebrenica era caduta perché c’erano soldati gay?”. Sheehan non ha dubbi: “Sì, furono una parte del problema”. A sostegno della sua tesi, cita un certo “generale Berman” che gli avrebbe confidato la “notizia”. Probabile che si riferisca a Henk van den Breemen, ex capo di Stato maggiore olandese. La sua risposta arriva nel giro di poche ore: “una grande sciocchezza” è il suo unico commento alle parole che arrivano dagli Stati Uniti.

Le forze armate Onu a Srebrenica in un fotogramma di "Resolution 819", il film sulla strage girato da Giacomo Battiato nel 2008

Ancora più dura è Renee Jones-Bos, ambasciatrice di Amsterdam a Washington: “Sono orgogliosa del fatto che lesbiche e gay abbiano servito nelle nostre forze armate apertamente e senza distinzioni per decenni, come in questo momento in Afghanistan”. In Olanda non hanno bisogno di chiedersi se sia il caso di arruolare gli omosessuali. Né tantomeno se la loro presenza indebolisca la “forza bruta” dell’esercito. Non sappiamo – e non ci interessa saperlo – quale fosse la percentuale di “eterosessualità” tra i soldati Nato a Srebrenica nel 1995. Ci interessa, invece, ciò che (non) fecero. E crediamo che anche i familiari delle vittime non la pensino troppo diversamente.

Leggi anche:  “Srebrenica? Un’invenzione”. Karadzic insulta le vittime

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