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Posts Tagged ‘nazionalismo’

Lo stadio Maksimir di Zagabria (stadidelmondo.blogspot.com)

Lo stadio Maksimir di Zagabria può ospitare quasi 40mila tifosi (stadidelmondo.blogspot.com)

Sono passati quasi 18 anni dalla fine della guerra jugoslava. Serbi, croati e bosniaci si scontrarono in modo atroce, devastante. Tra i motivi del conflitto c’era anche il nazionalismo, oggi tutt’altro che morto nei Paesi balcanici. Anche per questo una partita di calcio può fare paura. Domani si gioca Croazia-Serbia. Qualificazioni ai Mondiali 2014. Zagabria guida il suo girone con 10 punti, Belgrado è terza con 4. Oltre al pallone, però, si pensa anche al passato. E si teme di vederlo riaffiorare.

Lo stadio che ospiterà la gara è il Maksimir. Lo stesso in cui il 13 maggio 1990 scoppiarono scontri che (almeno col senno di poi) facevano presagire le violenze degli anni successivi. Si giocava Dinamo Zagabria-Stella Rossa Belgrado, ma di quella partita non rimasero impresse le immagini di gol o parate. Resta una foto che ritrae Zvonimir Boban, futuro asso del Milan, mentre tira un calcio a un poliziotto. Oggi all’ingresso dello stadio c’è una scritta: “Qui cominciò la guerra”. Chissà se è vero.

Il direttore della polizia croata ha detto che se sugli spalti si canteranno cori xenofobi il match potrà essere sospeso o annullato. In tanti, compresi i servizi segreti di Zagabria e la polizia serba, lavorano da mesi per preparare l’evento. Domani sera, finita la gara, vorremmo sentir parlare di una vittoria che fa rimontare la Serbia, di una che galvanizza la Croazia, o magari di uno scialbo 0-0. Non di insulti, tafferugli, violenze. Anche perché a settembre si replicherà a Belgrado. Sperando di potersi concentrare solo sulla classifica del girone.

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La sede della Banca mondiale a Washington (anordestdiche.com)

La sede della Banca mondiale a Washington, negli Stati Uniti (anordestdiche.com)

Un 2013 in timida ripresa. Ma con possibili “sconvolgimenti sociali” dovuti a disoccupazione e austerità. Sono le previsioni della Banca mondiale su sei Paesi balcanici: Albania, Bosnia, Kosovo, Macedonia, Montenegro e Serbia. Per quasi tutti quello che sta finendo è stato un anno difficile, con il picco peggiore a Belgrado e l’unica eccezione a Pristina. Le proteste sociali si fanno già sentire, anche in altri Stati dell’area: basti pensare alle manifestazioni delle ultime settimane in Slovenia, contro i tagli e la classe politica che ne è responsabile.

Quest’anno il Pil serbo è calato del 2%. Intorno allo zero Albania, Bosnia e Montenegro, mentre il Kosovo è cresciuto del 3%. Pristina dovrebbe mantenere questo ritmo anche nel 2013, seguita da Belgrado (+2%), Tirana (+1,6%) e da Skopje, Podgorica e Sarajevo, comprese tra l’1 e lo 0,5%. A accomunare tutti c’è l’alto tasso di disoccupazione: dal 15% albanese al 45% kosovaro, ben sopra la media dell’Unione europea, a cui finora non appartiene nessuno dei Paesi citati. La crescita economica prevista per l’anno prossimo non basta a far sorridere la Banca mondiale, che definisce i Balcani occidentali come la regione europea che forse ha subìto lo choc maggiore per la crisi globale. Austerità e recessione rischiano di impantanare l’area in un circolo vizioso, proprio come sembra esser successo alla Grecia, pochi chilometri più a sud.

Il timore di conflitti sociali nasce da qui, dalla consapevolezza delle difficoltà di nazioni spesso ancora segnate dai conflitti degli anni ’90, in cui alle sofferenze di tipo economico in molti casi si somma il nazionalismo, che è ancora vivo e potrebbe infiammarsi. Tra le cause delle guerre jugoslave c’è molto probabilmente anche la crisi degli anni ’80, quando l’inflazione arrivò a toccare punte spaventose. Questo non significa che nei Balcani stia per scoppiare un’altra guerra: significa che bisogna stare attenti, per evitare che si ricreino condizioni simili a quelle di quegli anni.

FONTI: Il Piccolo, TMNews, Eurostat

Leggi anche: Sloveni in piazza: no all’austerità che piace al neopresidente

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"Un altro Novecento", in libreria con Carocci al costo di 27 euro (aisseco.org)

Dopo il 1989 molti si erano illusi che il comunismo costituisse una parentesi storica, facilmente superabile attraverso programmi di privatizzazione dell’economia e democratizzazione della vita politica. La “deviazione” comunista, sommandosi alle specificità ereditate dal periodo 1919-45 (squilibri sociali, conflitti nazionali, instabilità politica), incise in modo assai più profondo di quanto immaginabile sulla mentalità collettiva e sulle strutture sociali dei paesi ex comunisti. Probabilmente la comune eredità di un passato scomodo che esita a passare costituisce l’unico, vero profondo legame che l’Unione Sovietica sia riuscita a creare con i suoi riluttanti satelliti.

Stefano Bottoni insegna Storia e istituzioni dell’Europa orientale all’Università di Bologna. Le parole qua sopra sono tratte dall’introduzione di “Un altro Novecento – L’Europa orientale dal 1919 a oggi”, appena pubblicato da Carocci. Un volume che cerca di ricostruire cosa è successo dopo la Prima guerra mondiale in un’area vastissima, che va dall’Estonia alla Moldavia. E che comprende anche l’ex Jugoslavia.

La tesi del libro è semplice: la storia dell’Europa in cui per decenni ha sventolato la bandiera comunista non si può spiegare solo guardando alla voce “nazionalismo”, che pure ha giocato un ruolo importante nelle vicende dell’Est. Per comprendere cosa è accaduto a partire dagli anni ’20 bisogna studiare gli “strati di memoria” che si sono sedimentati nella parte orientale del Vecchio continente durante l’ultimo secolo. Un’analisi applicabile in toto nei Balcani, dove le pulsioni populiste (su tutte, la volontà di creare la Grande Serbia) hanno soffiato sul vento delle guerre degli anni ’90, ma non ne sono state l’unica causa, e non possono bastare a spiegare la disgregazione dei Paesi governati da Tito per 35 anni.

Stefano Bottoni si è laureato a Bologna nel 2001, con una tesi sulle minoranze ungheresi nell'Europa centro-orientale (multikult.transindex.ro)

Nato a Bologna nel 1977, Bottoni collabora con l’Istituto di storia dell’Accademia ungherese delle Scienze. Per Carocci aveva già pubblicato il libro “Transilvania rossa. Il comunismo romeno e la questione nazionale (1944-1965)”. La sua grande passione, a giudicare dai tanti saggi e articoli scritti sull’argomento, sembra essere proprio l’area che comprende Ungheria e Romania. Il suo lavoro, però, può essere utile anche a chi è interessato ai Balcani, un (grande) frammento della fetta di Europa raccontata in “Un altro Novecento”.

Dei “riluttanti satelliti” dell’Unione Sovietica, la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia era la più riluttante. Il regime balcanico, in rottura con Stalin già poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale, è stato il più sui generis tra quelli comunisti dell’Europa orientale. Eppure i punti di contatto con le ex Repubbliche sovietiche ci sono, a partire da una situazione attuale di difficoltà economica e sociale, in gran parte eredità delle dittature rosse. Il libro di Bottoni può aiutarci a capire meglio affinità e differenze tra i “comunismi” a est di Trieste. E può far luce sui motivi della tragica dissoluzione dell’ex Jugoslavia.

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