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Il primo ministro sloveno Miro Cerar con il presidente del parlamento europeo Martin Schulz (foto Martin Schulz, http://bit.ly/R7HqWA)

Il primo ministro sloveno Miro Cerar con il presidente del parlamento europeo (foto Martin Schulz, http://bit.ly/R7HqWA)

Per la prima volta un paese ex-jugoslavo ha legalizzato i matrimoni gay. La Slovenia lo ha fatto circa una settimana fa, scatenando le proteste dei partiti di centrodestra e della chiesa cattolica. La conferenza episcopale di Lubiana ha invitato i preti a darsi da fare per raccogliere le firme necessarie a ottenere un referendum, ma sembra che la maggioranza dei cittadini sia favorevole alle nuove norme.

Il sì del parlamento è arrivato su una proposta di Sinistra unita, formazione di opposizione, appoggiata anche dal gruppo del primo ministro Miro Cerar. Pare che ora le coppie omosessuali potranno anche adottare bambini. Finora altri 12 paesi europei avevano istituito i matrimoni gay: in buona parte si tratta di stati del nord (Islanda, Norvegia, Svezia, Finlandia, Gran Bretagna, Danimarca). Ora la Slovenia apre una porta nei Balcani, dove l’intolleranza verso le persone non eterosessuali ha fatto notizia anche negli ultimi anni, dalla Serbia al Montenegro.

A Lubiana migliaia di cittadini hanno manifestato contro la svolta approvata dal parlamento. Dal partito di destra Nuova Slovenia, al governo negli scorsi anni, sono arrivate parole gravissime. “Così facendo – ha detto la presidente del comitato cultura – legalizzeremo la poligamia, e poi dovremo permettere anche il matrimonio tra uomini e bestie”. La speranza è che a pensarla così sia una parte molto minoritaria della popolazione.

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Violeta Bulc, candidata slovena a far parte della commissione europea (foto Jan Sandred, http://bit.ly/1jpMrk5)

Violeta Bulc, candidata slovena a far parte della commissione europea (foto Jan Sandred, http://bit.ly/1jpMrk5)

L’entrata in funzione della nuova commissione europea potrebbe slittare per colpa della Slovenia. L’ex capo del governo Alenka Bratusek, candidata alla vicepresidenza a Bruxelles, è stata bocciata dal parlamento comunitario. Il Sole 24 Ore scrive che durante l’audizione di fronte ai politici eletti è apparsa impreparata. Ora Lubiana propone Violeta Bulc, vice di Miro Cerar, alla guida dell’esecutivo nazionale da poche settimane. Il neo-presidente della commissione, Jean-Claude Juncker, potrebbe incontrarla nei prossimi giorni.

L’obiettivo sarebbe non rimandare l’inaugurazione del governo di Bruxelles, prevista il 1° novembre. I capigruppo di socialisti e popolari all’europarlamento chiedevano che Bratusek fosse sostituita da Tanja Fajon, già deputata comunitaria. Le autorità slovene hanno deciso di puntare su un altro nome. Attualmente il voto di fiducia per l’esecutivo Juncker è fissato il 22 ottobre. L’audizione di Bulc potrebbe svolgersi il 20. Nelle sue mani finirebbe la delega all’energia, finora detenuta dal tedesco Oettinger.

Bulc ha 50 anni e una storia da imprenditrice. Bratusek ne ha 44, e ha guidato il governo di Lubiana per un anno e mezzo. Per sei era stata a capo di un dipartimento del ministero delle finanze. Insomma, sembra conoscere la politica meglio della sua sostituta. Ora però il tempo stringe: un’altra bocciatura farebbe montare il caso, e va detto che dalle elezioni europee sono passati quattro mesi. Impiegarne di più per far insediare la nuova commissione potrebbe creare diverse polemiche.

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Una moschea in Kosovo (foto gardnergp, http://bit.ly/1kuY8rA)

Una moschea in Kosovo (foto gardnergp, http://bit.ly/1kuY8rA)

Tra pochi giorni il Kosovo vota per le elezioni politiche. Paradossalmente l’attenzione internazionale sembrava maggiore alle ultime amministrative, perché erano la prima consultazione dopo l’accordo europeo Pristina-Belgrado. Domenica si andrà alle urne per lo scioglimento anticipato del parlamento, e molti occhi restano puntati sulla minoranza serba.

I cittadini che ne fanno parte dovrebbero andare a votare, senza grosse operazioni di boicottaggio. Se sarà così, sarà una conferma del miglioramento del clima tra Serbia e Kosovo, di cui la prima però continua a non riconoscere l’indipendenza. Il ministro degli Esteri di Belgrado accusa Pristina di abusare dell’intesa raggiunta l’anno scorso a Bruxelles, parlando di mancato rispetto della promessa di unire i comuni serbi della regione in una comunità autonoma. Schermaglie diplomatiche o problemi di sostanza destinati a riaccendere lo scontro?

Il politico serbo-kosovaro Slobodan Petrovic dice che se l’affluenza sarà alta, la coalizione dei maggiori partiti che rappresentano la minoranza potrebbe conquistare 20 seggi su 120. Una compagine capace di creare problemi alla nuova maggioranza. Il motivo (o il pretesto) che ha spinto quella uscente a mollare è l’incapacità di approvare la costituzione di un esercito regolare, ancora assente a oltre sei anni dalla dichiarazione d’indipendenza. Gli ultimi atti della legislatura appena finita sono stati l’ok al proseguimento della missione europea in Kosovo e l’istituzione di un tribunale speciale su crimini di guerra e traffico d’organi.

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Proteste attorno al parlamento a Sarajevo (balcanicaucaso.org)

Tanti giovani tra i manifestanti attorno al parlamento a Sarajevo (balcanicaucaso.org)

C’è chi parla di primavera bosniaca, o di indignati di Sarajevo. Dieci giorni fa in città è iniziata una protesta su un tema complesso, i numeri di identificazione dei documenti d’identità, che hanno un impatto molto concreto sulla vita delle persone. Intensità e partecipazione delle manifestazioni davanti al parlamento sono aumentate col passare dei giorni, e fanno pensare che stia succedendo quello che è accaduto in Turchia: da un singolo problema, la distruzione di un parco, scaturisce una contestazione che ha ragioni più vaste e profonde.

Il problema bosniaco è che a febbraio la Corte costituzionale ha sospeso la legge sui nuovi numeri d’identificazione dei documenti, accogliendo un ricorso di Milorad Dodik, presidente della Repubblica Srpska, una delle due entità in cui è diviso il Paese. La sentenza ha bloccato l’assegnazione dei codici ai nuovi nati, e a cosa servano si capisce bene dal caso che ha fatto scoppiare la protesta: una neonata che aveva bisogno di farsi curare all’estero non poteva farlo perché senza il numero d’identificazione non poteva espatriare.

Da qui i presidi davanti al parlamento, con genitori e bambini in passeggino: all’inizio poche decine, poi migliaia, con tanti giovani, soprattutto studenti. L’assemblea nazionale è stata circondata, con l’obiettivo di non far entrare né uscire nessuno finché la questione non fosse risolta. I politici hanno cercato di metterci una toppa, approvando una legge che sanasse provvisoriamente il problema per 180 giorni. Una scelta che ha permesso alla bimba bisognosa di cure di andare all’estero, ma non ha frenato i contestatori, decisi a ottenere di più.

Cosa? Un provvedimento che risolva definitivamente il rebus dei numeri d’identificazione, ma anche la creazione di un fondo pubblico per le terapie dei malati gravi, fondo in cui si chiede ai parlamentari di versare il 30% dello stipendio. Richieste che ricordano davvero gli indignati di altre città, di altri Paesi, in una protesta che sembra già carica di simboli forti: quello scelto dai manifestanti, un ciuccio col pugno chiuso, ma anche il primo ministro che cerca di sfuggire all’assedio uscendo dalla finestra. La primavera meteorologica sta per finire, quella bosniaca forse è appena iniziata.

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Zlatko Dizdarevic è un giornalista nato a Belgrado nel 1948. In Italia ha pubblicato anche "Lettere da Sarajevo" (Feltrinelli, 1998)

“Oslobodenje”, in serbo-croato, significa “liberazione”. Non è un caso che a portare questo nome sia uno dei quotidiani storici di Sarajevo, fondato dai partigiani che lottavano contro l’occupazione nazista della Jugoslavia. Purtroppo un’altra generazione di redattori della stessa testata ha dovuto vivere una guerra: ne fa parte Zlatko Dizdarevic, che ha raccontato il dramma degli anni ’90 dal suo interno, mentre si stava compiendo.

Giornale di guerra (Sellerio, 1994) è la descrizione dell’assedio di Sarajevo da parte di chi ho la vissuto. La capitale bosniaca rimase stretta nella morsa del conflitto per quasi quattro anni: “Oslobodenje” continuò a uscire ogni giorno, grazie al lavoro di circa 70 giornalisti musulmani, serbo-bosniaci e croato-bosniaci. A guidarli c’era Dizdarevic, che racconta di essere cresciuto “in una famiglia in cui ci si sentiva prima di tutto jugoslavi”. La redazione del quotidiano, insomma, era uno scrigno in cui si difendeva quella “convivenza delle diversità” che i signori della guerra volevano distruggere: ancora di più, però, era un luogo di resistenza umana, oltre che professionale, all’orrore. Continuando a credere nel loro lavoro, i giornalisti di “Oslobodenje” si ostinavano a credere nella dignità della persona. Viene in mente Se questo è un uomo di Primo Levi: il suo sforzo di ricordarsi i versi di Dante nel lager è il simbolo di tutti i tentativi di opposizione al male da parte dell’uomo. Dizdarevic non è Levi, non ha la sua stessa altezza letteraria, ma le miserie della città assediata sono le stesse dei campi di concentramento: il giornalista ci racconta le lotte per trovare l’acqua, le stragi senza senso, i piccoli gesti di ogni giorno che assumono una valenza enorme, impensabile in tempo di pace. “Considerate se questo è un uomo, che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no”: i versi della poesia che apre il capolavoro di Levi esprimono lo stesso dolore, la stessa rabbia vitale che prova Dizdarevic, che prova ogni uomo colpito da un’atrocità troppo grande per essere accettata.

La sede di "Oslobodenje", distrutta nel luglio '92. Da allora la redazione si trasferì in un rifugio antiatomico

Nel dicembre 1993, a conflitto in corso, il Parlamento europeo conferì a “Oslobodenje” il Premio Sacharov per la libertà di pensiero. Nello stesso anno gli editori Kemal Kurspahic e Gordana Knezevic furono premiati dalla World Press Review per “il loro coraggio, la loro tenacia e la loro dedizione ai principi del giornalismo”. I riconoscimenti internazionali, tuttavia, non sono bastati a diffondere a sufficienza Giornale di guerra anche in Italia, sebbene il libro sia stato tradotto da un personaggio famoso come Adriano Sofri. C’è bisogno di ritrovare un testo del genere, se si vuole capire cosa è successo a pochi chilometri da casa nostra: ce n’è bisogno, soprattutto, se si vuole comprendere quale spinta ha permesso ai Balcani di sopravvivere, quale forza d’animo animava chi ha “combattuto” la guerra schierandosi dalla parte della vita.

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Fino al '91 le acque croate e slovene appartenevano allo stesso mare jugoslavo. Dopo la disgregazione non si è riusciti a tracciare un confine condiviso

Da Wikipedia: “La Slovenia richiede la cessione da parte della Croazia di alcune delle sue acque territoriali ad ovest di Umago per potere accedere direttamente alle acque internazionali. Altre controversie tra le due ex repubbliche jugoslave riguardano l’assegnazione di alcune piccole unità catastali nei pressi del monte Gorjanci e lungo il fiume Mura”. Possibile che simili dispute possano bastare a far cadere il governo sloveno e a rallentare l’ingresso in Europa della Croazia? Evidentemente sì, se è vero che entrambi i Paesi sono in fermento in vista del referendum sull’argomento che si dovrebbe tenere nel prossimo giugno. Una consultazione che potrebbe risolvere (o aggravare) un conflitto diplomatico aperto dal 1991.

Il problema del confine sloveno-croato esiste dall’inizio delle guerre jugoslave e riguarda soprattutto gli spazi marittimi che fronteggiano l’Italia, nel golfo di Trieste e – al suo interno – nella baia di Pirano. La Slovenia, che ha uno sviluppo costiero di soli 47 km, pretende un “corridoio di transito” che colleghi le proprie acque territoriali a quelle internazionali dell’Adriatico. A questa richiesta se ne aggiungono altre riguardanti le frontiere “terrestri”, ad esempio nella valle del fiume Dragogna, in Istria. La questione si è trascinata negli anni e si è aggravata nel dicembre 2008, quando la Slovenia ha posto il veto al proseguimento del processo di adesione della Croazia alla Ue finché non si sarà trovata una soluzione. Lubiana preme per un accordo politico tra i due Stati; Zagabria vorrebbe basarsi esclusivamente sul diritto internazionale. L’11 settembre scorso il primo ministro sloveno Borut Pahor e quello croato Jadranka Kosor hanno finalmente concordato l’istituzione di un organismo formato da cinque arbitri internazionali, chiamati a dirimere le controversie in modo vincolante per entrambi i Paesi.

Borut Pahor e Jadranka Kosor, capi di governo di Slovenia e Croazia: il loro accordo sui confini potrebbe venire sottoposto a referendum

Il patto è stato ratificato pochi giorni fa dal parlamento sloveno, che il 3 maggio si pronuncerà nuovamente sullo stesso tema. Quasi certamente verrà indetto un referendum, che l’opposizione vuole usare per bocciare un accordo ritenuto “sconveniente” per il Paese (ma utile per indebolire il governo in carica). Fino a pochi mesi fa Croazia e Slovenia erano d’accordo solo sulla data di riferimento: il 25 giugno 1991, giorno in cui entrambi gli Stati dichiararono l’indipendenza dalla morente Jugoslavia. Lubiana e Zagabria, però, fino allo scorso settembre davano interpretazioni diverse della situazione dell’epoca, in cui i confini ufficiali non coincidevano e una frontiera marittima non esisteva neppure. Oggi le cose sembrano essere cambiate, principalmente per motivi di opportunità: che si voglia entrare in Europa, o che si desideri un accesso diretto alle acque internazionali, l’ultima cosa da fare per raggiungere i propri obiettivi è continuare una disputa durata già troppo a lungo.

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Il presidente serbo Boris Tadic con Milorav Dodik, premier della Repubblica serba di Bosnia

“Se il Kosovo diventa indipendente, non vedo perché non dovremmo esserlo anche noi”. Milorad Dodik, primo ministro della Repubblica serba di Bosnia (RS), parlava così nel settembre 2006. Oggi giura di non volere più la separazione dalla Federazione croato-musulmana (l’altra entità in cui è divisa la Bosnia-Erzegovina), ma sono in molti a non credergli. Il sospetto nasce dalla legge sul referendum approvata in questi giorni dal parlamento dei serbi bosniaci: un provvedimento che potrebbe essere un primo passo verso la secessione da Sarajevo.

La nuova normativa attribuisce il diritto di indire un referendum al presidente della Repubblica, al governo o ad almeno 30 deputati, stabilendo il ricorso obbligatorio alla consultazione popolare in caso di adesione del Paese alla Nato o di modifica degli accordi di pace di Dayton del 1995. Dodik sostiene di voler garantire proprio l’attuazione dei patti che posero fine alla guerra, a suo parere minacciata dal rafforzamento del governo centrale bosniaco voluto dalla comunità internazionale. Se si terrà un referendum, dice il primo ministro, sarà per difendere l’autonomia dei serbi di Bosnia, ma non per promuovere la creazione di un nuovo Stato indipendente.

Valentin Inzko, Alto rappresentante per la Bosnia-Erzegovina per la comunità internazionale

“Siamo pronti a inviare l’esercito per difendere l’integrità della Bosnia”, aveva tuonato a gennaio dalla Croazia Stipe Mesic. La preoccupazione dell’ex presidente è condivisa dai deputati musulmani e croati della RS, che dopo l’approvazione della legge sul referendum hanno abbandonato l’aula, annunciando che ricorreranno al diritto di veto nella Camera dei popoli (il secondo ramo del parlamento) e alla Corte costituzionale. Per loro l’unico obiettivo di Dodik è la scissione dalla Federazione croato-musulmana: non gli credono neanche quando afferma di voler limitare i poteri dell’Alto rappresentante dell’Ohr, l’istituzione internazionale che vigila sull’attuazione di Dayton e che può rimuovere i membri del governo, imporre e revocare normative, congelare le attività dei partiti.

Delle due l’una: o i politici croati e musulmani esagerano con le loro proteste, oppure Dodik mente. Sempre nel 2006, il primo ministro raccontava che ogni volta che tornava da Sarajevo a Banja Luka, capitale della RS, suo figlio gli chiedeva: “Come si sta a Teheran?”. Allora la lotta “contro l’islamizzazione della Bosnia” era uno dei suoi cavalli di battaglia. Oggi, almeno a parole, le sue intenzioni sono cambiate. Tattica politica o sincero ravvedimento?

Leggi anche: Croazia: “Pronti a prendere le armi”. Solo una provocazione?

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