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Anton K. e Murat A., a processo da novembre, si dichiarano vittime di un caso di omofobia

L’amore non ha segreti. A meno che tu non sia una spia omosessuale. Anton K., 42 anni, tedesco, e Murat A., 29 anni, macedone di etnia albanese, sono sotto processo a Monaco di Baviera. L’accusa? Aver passato informazioni riservate al crimine organizzato balcanico o a servizi di intelligence di altri Paesi. I due imputati, però, sostengono di essere perseguiti solo in quanto gay.

Anton, ex ufficiale dell’esercito, arriva a Pristina nel 2005. Ufficialmente è nella capitale del Kosovo come diplomatico del ministero degli Esteri, in realtà deve investigare sui legami tra criminalità e istituzioni del luogo. Dopo poco conosce Murat, che parla un tedesco perfetto ed è ben inserito in città. Lo ingaggia come suo interprete. I due vanno a vivere insieme e in breve tempo si innamorano. Nel 2007 Anton cambia il beneficiario della sua polizza d’assicurazione sulla vita: sostituisce la moglie, rimasta in patria, con il suo innamorato. Un errore che gli costerà caro.

Il logo dei servizi segreti tedeschi. Negli anni ’90 indagarono sui fondi provenienti dalla Germania e destinati all’Esercito di liberazione del Kosovo

Appena la consorte riceve la notizia dalla compagnia assicurativa, si precipita a chiedere spiegazioni negli uffici dell’intelligence tedesca. Che non ne sa nulla. Anton viene denunciato alla magistratura ed arrestato assieme a Murat nel marzo 2008. L’agente avrebbe passato notizie confidenziali all’amante, che a sua volta le avrebbe divulgate ad altri 007 o alla delinquenza locale. Tutto falso per gli accusati, che affermano di essere vittime di un caso di omofobia.

Non è la prima volta che Murat finisce in tribunale: sulle sue spalle pende una condanna per lesioni personali e sequestro di persona nei confronti della compagna. Sì, perché anche l’interprete, come Anton, aveva una relazione eterosessuale. I due innamorati ammettono di aver sbagliato a non avvisare i superiori del loro rapporto. Se avessero avvertito anche i rispettivi partner, adesso non rischierebbero 10 anni di carcere.

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L'attrice rom Dijana Pavlovic

“Io non sono scappata dalla povertà e dalla guerra. Sono arrivata per amore”. Dijana Pavlovic, attrice serba di etnia rom, ha 33 anni. Lavora in Italia dal ’99, quando si è sposata col collega Claudio Migliavacca. Entrambi fanno principalmente teatro, anche se Dijana ha partecipato a produzioni tv (la serie La squadra) e cinematografiche (Provincia meccanica con Stefano Accorsi). Nel 2008 si è candidata alla Camera con la Sinistra arcobaleno, senza essere eletta. Da qualche anno collabora con L’Unità: il 3 gennaio ha raccontato la sua odissea per diventare cittadina del nostro Paese, cominciata nel ’97 davanti all’ambasciata italiana a Belgrado.

“Venivo intorno alle quattro di mattino e trovavo già una coda di persone che avevano passato lì la notte per prendere il numero”. Dijana conosce il suo futuro marito durante il festival teatrale Olive 97 in Montenegro. Si innamora di lui, ma scopre presto la burocrazia e le spese che deve affrontare per venire a trovarlo in Italia. “Per il visto turistico per dieci giorni mi chiedevano un’assicurazione medica privata, 100 mila lire per ogni giorno di permanenza in Italia su un conto corrente anche se venivo ospitata da una famiglia di cui si verificava il reddito, il certificato che studiavo all’università di Belgrado come garanzia che sarei tornata e la fedina penale pulita”.

Dopo due anni di file da sopportare e moduli da riempire, Dijana e Claudio decidono di unirsi in matrimonio. “In realtà volevamo convivere un po’ prima di sposarci ma non era possibile, la legge non prevedeva questa possibilità tra un italiano e una extracomunitaria”. Prima di fare domanda per la cittadinanza, l’attrice deve attendere ancora sei mesi. Un impiegato si informa dai vicini per sapere se vive effettivamente insieme a suo marito: vuole controllare che le nozze siano vere e non combinate per ottenere la nazionalità italiana. Due anni dopo, Dijana viene finalmente convocata in Comune per prestare giuramento sulla Costituzione.

La Pavlovic discute con Daniela Santanchè all'interno di un campo rom

“Per me era un momento speciale, sono andata con la macchina fotografica, ma anche lì ho fatto una lunga fila e quando è arrivato il mio turno un impiegato mi ha chiesto solo se parlavo italiano”. Dijana risponde di sì. E diventa cittadina del nostro Paese. Ora ha un figlio, nato italiano: per lui ha preso una casa che ha ristrutturato. “I muratori albanesi mi hanno raccontato che sono in Italia da 16 anni e i loro figli sono nati qui, parlano italiano, non vogliono parlare albanese, quando vanno in Albania dopo un po’ si stufano e chiedono quando si torna a casa. Ma non sono cittadini italiani. Come migliaia di figli di immigrati e migliaia di rom slavi nati in Italia, non amano il paese dei loro genitori e parlano l’italiano come lingua materna, ma sono senza una patria”.

La loro unica colpa, dice Dijana, è di non avere un genitore italiano. La loro speranza è che i Paesi in cui sono nati entrino nella Ue. In questo modo non sarebbero più extracomunitari, come è accaduto ai rumeni. Diventare cittadini europei, oggi, è più facile che diventare cittadini italiani.

Leggi anche: Il racconto di Dijana Pavlovic su “L’Unità” del 3 gennaio 2010

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