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Il membro musulmano della presidenza "tripartita" sarà Bakir Izetbegovic, figlio dell'ex presidente Alija

I musulmani scelgono di cambiare. I serbi e i croati no. E’ il riassunto delle elezioni politiche di domenica 3 ottobre in Bosnia. A comporre la presidenza “tripartita” saranno il serbo Nebojsa Radmanovic, il croato Zeljko Komsic e il musulmano Bakir Izetbegovic: ma solo la vittoria di quest’ultimo segna una reale novità.

Alija Izetbegovic è stato presidente della Bosnia dal 1990 al 1996, negli anni più duri per il Paese e per tutta l’ex Jugoslavia. Oggi suo figlio raccoglie l’eredità di Haris Silajdzic, un altro protagonista della guerra degli anni ’90, di posizioni più radicali rispetto al suo successore. L’elezione di un musulmano “moderato” è letta da molti come positiva per la convivenza interetnica: in questa chiave è però meno incoraggiante il successo dell’Alleanza dei socialdemocratici indipendenti (SNSD), la formazione politica di Radmanovic – riconfermato nel suo incarico – e soprattutto di Milorad Dodik, vero leader del partito, che ha respinto l’invito al dialogo di Izetbegovic con un secco: “Non abbiamo niente da discutere”. Decisamente più morbido l’orientamento di Komsic, anche lui al secondo mandato, estraneo agli spiriti nazionalisti cavalcati dai rappresentanti serbi.

Il grande sconfitto è Haris Silajdzic, in carica dal 2006. Con lui la disoccupazione è arrivata al 43%

La vera sorpresa delle votazioni di una settimana fa, comunque, ha il nome di Fahrudin Radoncic. Proprietario di Dnevni Avaz, il quotidiano più venduto in Bosnia, per il suo potere mediatico è già stato soprannominato “il Berlusconi dei Balcani”. Alle urne ha battuto addirittura Silajdzic, raccogliendo il 31% dei consensi. Non abbastanza per sconfiggere Izetbegovic, arrivato al 35%. Ma abbastanza per capire che Sarajevo ha voglia di cambiare.

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Ganic con Margaret Thatcher. All'inizio pareva fosse stata lei a pagare la cauzione che lo ha liberato

Sarajevo, 3 maggio 1992. Il presidente bosniaco Alija Izetbegovic è ostaggio dei militari di Belgrado. Il generale serbo Milutin Kukanjac è prigioniero dei soldati musulmani. Le due parti si accordano per uno scambio, ma l’intesa non viene comunicata ad Ejup Ganic, responsabile delle forze armate della Bosnia-Erzegovina. I suoi uomini sparano sul contingente di Kukanjac, che era segregato in caserma insieme all’ufficiale. Izetbegovic viene comunque liberato. Tornato a palazzo, grida furente: “Era veramente necessario farmi quasi uccidere, per saccheggiare quaranta fucili?”.

Per questi fatti Ejup Ganic, membro musulmano della Presidenza collettiva bosniaca durante il conflitto, è stato arrestato pochi giorni fa a Londra, su richiesta del governo serbo. Il politico è stato però rilasciato oggi dall’Alta Corte della capitale inglese. A pagare la cauzione di 300 mila sterline (circa 350 mila euro) è stata Diana Jenkins, moglie di uno dei più influenti banchieri londinesi, nata a Sarajevo e scappata da lì durante la guerra. Pur non avendo mai conosciuto Ganic, la donna ha definito “uno scandalo” la sua carcerazione, che gli impediva di poter “contrastare queste accuse ridicole da uomo libero”. L’ex leader balcanico dovrà comunque restare sul territorio britannico, finché i giudici non si saranno pronunciati sulla richiesta di estradizione presentata da Serbia e Bosnia.

Diana Jenkins, ex profuga bosniaca, ha pagato 350 mila euro per far rilasciare Ganic

Nel 2003 il Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia aveva esaminato il “fascicolo Ganic”, senza trovare elementi di responsabilità penale a suo carico. Durante il conflitto, il politico fu accusato anche di aver imposto il proprio controllo sugli aiuti umanitari che arrivavano in città, immagazzinandoli in località segrete e rivendendoli a caro prezzo alla popolazione. Ora la presidenza bosniaca è spaccata: per il membro musulmano Haris Silajdzic “si vuole processare la resistenza all’aggressione di Belgrado”, per l’esponente serbo Nebojsa Radmanovic lo stesso Silajdzic “privatizza lo Stato per sostenere Ganic”. Ancora una volta, una controversia riguardante la guerra divide gli organi di governo di Sarajevo, frantumati in tre dagli accordi di Dayton. Forse la tripartizione del Paese tra croati, serbi e musulmani non fu, come la definì Ganic, la “legalizzazione del genocidio”. Sicuramente, però, ha creato un vero caos istituzionale, che appare in tutta la sua gravità quando riemergono le tragedie degli anni ’90.

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