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I Modena City Ramblers hanno scritto "L'aquilone dei Balcani" (1996) e "Marcia balcanica" (1997)

“Bella la vita dentro un catino
bersaglio mobile d’ogni cecchino
bella la vita a Sarajevo città
questa è la favola della viltà…”

(CSI, Cupe vampe, 1996)

In Italia si parla di ex Jugoslavia soprattutto in riferimento ai conflitti dello scorso decennio. E la musica non fa eccezione. Se si vanno a cercare le canzoni che trattano in qualche modo tematiche “balcaniche”, è facile imbattersi in testi che toccano l’argomento bellico. Ma nonostante tutto, c’è qualche sorpresa. E sicuramente ci stiamo dimenticando di altri pezzi, magari meno conosciuti, che guardano oltre Adriatico senza occuparsi di guerra.

Non che parlare delle violenze degli anni ’90 sia per forza un male, ovviamente. Cupe vampe, ad esempio, è una canzone importante, scritta 14 anni fa da Giovanni Lindo Ferretti. Il leader dei CCCP (poi CSI) racconta l’assedio di Sarajevo e in particolare il rogo della Biblioteca Nazionale. I “criminali serbi” (così recita la targa posta oggi al suo ingresso) bruciarono oltre 2 milioni di libri. Uno scempio che va ricordato: un orrore simile a quello della distruzione del ponte di Mostar, inutile ai fini strategici, ma devastante dal punto di vista simbolico.

Fa piacere, però, che altri musicisti siano… andati nei Balcani pensando a temi diversi. E’ il caso dei Litfiba, tornati insieme pochi mesi fa dopo dieci anni di separazione. Ben prima della guerra, nel 1985, furono loro a scrivere la suggestiva Tziganata: un insolito inno gitano dal ritmo forsennato e dal testo essenziale, che ripete insistentemente una sola immagine, quella di una ragazza sensuale che balla intorno al fuoco. Nove anni dopo il gruppo fiorentino dette alla luce Lacio drom (“buon viaggio” in lingua rom), tuttora uno dei pezzi più amati dai fans. “Ti porterò nei posti dove c’è del buon vino, e festa, festa, fino al mattino”… un inno alla voglia di vivere e alla libertà che restituisce un’atmosfera di gioia e condivisione tipicamente balcaniche.

Di tenore differente, ma comunque brillante, la Primavera a Sarajevo che Enrico Ruggeri porta a Sanremo nel 2002. La ballata del cantautore milanese parla della guerra, ma lo fa per sottolineare come la popolazione sia riuscita a continuare a vivere dopo le violenze. Il ritmo del pezzo è sostenuto, sognante, e fa pensare alla capitale bosniaca come a un luogo di rinascita dopo le tragedie del passato. Non finisce qui: anche i Modena City Ramblers hanno dedicato più di una canzone ai Balcani, e chissà quanti altre, di altri gruppi, sono state dimenticate nel corso degli anni. Una cosa è certa: anche in musica, anche in Italia, si può parlare di ex Jugoslavia senza “chiudersi” nel pietismo sui conflitti degli anni ’90.

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«L’apertura della cultura bosniaca allo “sguardo dell’altro” non deriva da una mancanza di identità o da una debole coscienza della propria identità, ma dalla disponibilità a riconoscere allo sguardo dell’altro rilevanza e fondatezza».

(Dzevad Karahasan, “Il centro del mondo”)

L’Altro è presente ovunque a Sarajevo. C’è nella Bascarsija, la zona più famosa e forse più turistica, dove i negozianti del luogo si mescolano ai visitatori stranieri. C’è nella Biblioteca Nazionale, dove una targa all’ingresso ricorda il rogo di oltre due milioni di libri operato dai “criminali serbi” durante la guerra. C’è nelle vie del centro, dove si gioca con scacchi giganti spostando le pedine sul lastricato. L’Altro, si potrebbe dire, è Sarajevo: l’incontro con il diverso, doloroso o piacevole che sia, è sempre stata la cifra caratteristica della città.

Cattolici, ortodossi, ebrei, musulmani: quattro religioni monoteiste convivono pacificamente nella capitale bosniaca. Anche le cosiddette “etnie”, che tali non sono perché appartenenti allo stesso ceppo slavo, sono rimaste in pace fino al 1992, quando serbi, croati e musulmani hanno iniziato ad uccidersi tra di loro. L’assedio di Sarajevo, durato quasi quattro anni, stravolse un microcosmo quasi unico al mondo, simbolo fino ad allora di tolleranza e ricchezza intellettuale. Oggi le differenze tra culture non sono sparite, anche se certo sono mescolate meno dolcemente di quanto lo fossero vent’anni fa. Certe ferite non si rimarginano rapidamente: i cimiteri sulle colline circostanti, cosparsi di tombe bianche in quantità impressionante, sono un promemoria costante per viaggiatori e cittadini.

Parlando con gli abitanti, però, si percepisce la convinzione nel guardare avanti, la volontà di pensarsi come un luogo vivo anziché come un teatro di morte. Nessuno, a Sarajevo, vuole rimuovere ciò che è stato: tutti, però, danno l’impressione di voler pensare al presente, ad un benessere che è ancora da costruire ma di cui si intravedono già i primi segni nella dignità con cui è stata ricostruita la città. Gli effetti della guerra si vedono, ma bisogna cercarli: i muri punteggiati dalle pallottole o gli edifici devastati dalle cannonate sono rari, soprattutto nelle zone centrali, che si occidentalizzano ogni giorno di più e vedono crescere il numero di bar e locali alla moda. I veri padroni della capitale sembrano essere i giovani, anche loro tutti diversi e “variopinti”, pronti a portare il Paese sempre più lontano da quell’atrocità che li ha travolti quando erano bambini.

In una delle vie del centro arde la Fiamma Eterna, il “monumento di fuoco” che brucia costantemente per ricordare i caduti del secondo conflitto mondiale. Poco più in là, una targa commemora l’uccisione dell’erede al trono austro-ungarico Francesco Ferdinando, la miccia che fece scoppiare la prima guerra mondiale. Se si vuole davvero “respirare” Sarajevo, però, conviene uscire dalla città, salire sulle colline verdi che la circondano e mettersi seduti, in silenzio. Davanti ai tetti rossi e al fiume Miljacka, alle distese di camposanti e ai minareti delle moschee, si intuisce quella che ci pare l’essenza della capitale bosniaca: la sua capacità di unire culture e religioni in una miscela gioiosa, la sua vocazione ad essere “centro del mondo” grazie all’incontro sempre rinnovato con l’Altro. Forse era proprio questa natura, questa apertura alla condivisione a infastidire i signori della guerra. Un’identità che riunisce le diversità fa paura. Quattro anni di orrore non sono bastati ad annientarla.

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