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A Srebrenica morirono circa 7mila persone (foto Martijn.Munneke, http://bit.ly/1kuY8rA)

A Srebrenica morirono circa 7mila persone (foto Martijn.Munneke, http://bit.ly/1kuY8rA)

Vent’anni dopo il massacro di Srebrenica, non si può dire che tra autorità serbe e bosniache ci sia una memoria condivisa. Quelle di Belgrado continuano a rifiutarsi di parlare di genocidio, mentre quelle di Sarajevo puntano a veder approvata una risoluzione Onu che usi proprio quel termine per riferirsi al disastro del luglio 1995. Quest’anno decine di migliaia di persone dovrebbero partecipare alle commemorazioni, ma c’è anche il rischio che possano saltare.

Il motivo è l’arresto di Naser Oric, comandante delle forze musulmane durante la guerra. Il suo fermo è avvenuto in Svizzera sulla base di un mandato emesso dalla Serbia. L’ex ufficiale è stato processato al tribunale penale internazionale, che lo ha prima condannato e poi assolto, ma a Belgrado si vuole portarlo di nuovo sul banco degli imputati. Il governo bosniaco non ci sta e ha chiesto a sua volta l’estradizione di Oric, che per ora rimane a Ginevra, conteso dai due Paesi. “Se non sarà liberato entro il 30 giugno, la cerimonia in ricordo dell’eccidio di Srebrenica potrebbe essere rinviata”, dice il comitato organizzatore. La vicenda ha causato la cancellazione di una visita a Sarajevo del presidente serbo Nikolic, prevista due settimane fa.

Il voto sulla risoluzione dovrebbe essere il 7 luglio, pochi giorni prima dell’anniversario. Il governo serbo potrebbe chiedere alle autorità russe di mettere il veto. Che non ci fosse ancora una lettura comune delle stragi si sapeva, ma era lecito sperare che ci si avvicinasse alla ricorrenza in cui un clima migliore. Difficile dire quanto le controversie politiche corrispondano a pensieri e sentimenti delle opinioni pubbliche. A Belgrado un attivista sta organizzando una commemorazione delle vittime di Srebrenica davanti al parlamento. Se riuscirà nel migliore dei modi sarà una buona notizia, la conferma che è giusto non rappresentare i due Paesi come sempre e solo contrapposti, perché ci sono cittadini che vogliono “semplicemente” il riconoscimento della verità.

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Il castello di Srebrenik, a pochi km dall'enclave musulmana radicale Maoca (foto Groundhopping Merserburg, http://bit.ly/1m88Mqa)

Il castello di Srebrenik, a pochi km dall’enclave musulmana radicale Maoca (foto Groundhopping Merserburg, http://bit.ly/1m88Mqa)

I Balcani occidentali come area a notevole rischio per l’estremismo islamico, e la Bosnia come il cuore di questo problema. È la foto che emerge dai racconti dei media italiani che ne hanno parlato negli ultimi mesi. Il simbolo più forte sono le bandiere dell’Isis comparse nel villaggio di Maoca, abitato da diversi anni da una comunità di integralisti.

La prima cosa che viene in mente guardando indietro è la componente musulmana della guerra degli anni ’90. La penetrazione del jihadismo potrebbe essere iniziata con la partecipazione al conflitto contro serbi e croati, che ha cancellato molte delle realtà multietniche che esistevano prima. La stessa Sarajevo oggi ha una quota di cittadini islamici maggiore di un tempo. Questo non autorizza a concludere che ci sia stato un aumento proporzionale di terroristi: un fedele di Maometto va rispettato come uno di Gesù o un ateo, finché non si dimostra che uno di questi è implicato in qualcosa di criminale.

I numeri che circolano sulle testate italiane parlano di centinaia di bosniaci partiti per unirsi ai jihadisti. Subito dopo – tra gli stati ex jugoslavi – ci sarebbero il Kosovo e l’Albania. Le persone coinvolte sarebbero soprattutto giovani che non hanno combattuto nella guerra di vent’anni fa. La loro radicalizzazione dev’essere avvenuta dopo: al massimo l’infiltrazione estremista di due decenni fa può essere stata la base, l’humus da cui è iniziato un percorso.

Difficile dire quanto sia pericolosa la situazione in Bosnia. A febbraio ha fatto scalpore la notizia delle bandiere nere avvistate a Maoca, nel nordest del paese. Le immagini sono comparse in tv, ma quando le forze speciali di polizia sono arrivate sul posto i vessilli non c’erano. Sembra che lì durante la guerra ci sia stata una pulizia etnica anti-serba, e che ora ci vivano solo musulmani radicali.

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La SS. Cyril and Methodius University a Skopje (foto Darko Hristov, http://bit.ly/1jpMrk5)

La SS. Cyril and Methodius University di Skopje (foto Darko Hristov, http://bit.ly/1jpMrk5)

In Macedonia studenti e professori universitari protestano da quasi due mesi contro il governo. La miccia è stata l’idea di istituire un esame di stato obbligatorio per chi sta per laurearsi in un istituto statale. Secondo i contestatori questa novità diminuirebbe l’autonomia degli atenei e offrirebbe maggiori possibilità di corruzione, in un sistema educativo che già non pare godere di buona salute.

Il primo corteo risale al 17 novembre, con duemila persone in piazza e pochissima attenzione mediatica. Il caso esplode il 10 dicembre, con 12mila dimostranti nella capitale Skopje, in quella che è stata definita la maggior manifestazione studentesca dal 1991, anno dell’indipendenza del paese. Diverse marce ci sono state anche in altre città. Il ministro dell’istruzione dice che il provvedimento del governo punta a introdurre un meccanismo di controllo della qualità; il capo dell’esecutivo di centrodestra ha insinuato che dietro la protesta ci sia l’opposizione socialdemocratica. I leader studenteschi hanno risposto con un comunicato in cui chiedono di non portare in piazza simboli e slogan di partito.

La contestazione sembra avere almeno un tratto comune con quelle bosniache di inizio 2014. In piazza ci sono sia macedoni in senso stretto che cittadini di etnia albanese, due etnie tra cui anche nei mesi scorsi ci sono state tensioni. Una notizia che fa pensare appunto ai “plenum” di Sarajevo e dintorni, in cui persone appartenenti a gruppi diversi si sono unite nella richiesta di istituzioni più giuste e funzionanti. Ora studenti e professori macedoni hanno scritto al capo dello stato, anche lui di centrodestra, per chiedergli di porre il veto sulla creazione dell’esame di stato.

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Johannes Hahn dovrebbe essere il nuovo commissario europeo all'allargamento (foto epp group, http://bit.ly/1wcSz92)

L’austriaco Johannes Hahn dovrebbe essere il nuovo commissario europeo all’allargamento (foto epp group, http://bit.ly/1wcSz92)

Serbia, Montenegro e Kosovo si avvicinano a Bruxelles. Bosnia e Macedonia no. La commissione europea ha diffuso i suoi rapporti annuali sui paesi candidati (o potenziali tali) a entrare nell’Unione. Ogni documento si apre con una pagina di raccomandazioni, che in parte ricalcano quelle di ottobre 2013. In mezzo ci sono state le proteste di piazza a Sarajevo e dintorni, le alluvioni che hanno devastato la regione ed elezioni nazionali in quattro delle cinque “entità” interessate (fa accezione solo Podgorica).

Serbia. È senz’altro lo stato balcanico più vicino ad aderire alla Ue. Il rapporto ricorda che la svolta è avvenuta l’anno scorso con la distensione nelle relazioni con il Kosovo, e parla di progressi fatti sulle riforme che ritiene necessarie. Bruxelles descrive passi avanti nel cambiamento della pubblica amministrazione e un “forte impeto politico” contro la corruzione, ma aggiunge che servono altri sforzi per assicurare l’indipendenza dei giudici e che restano da approvare alcune leggi-chiave, tra cui (pensa un pò) una sul conflitto di interessi. Preoccupano anche l’alta disoccupazione e il peggioramento delle condizioni per un pieno esercizio della libertà d’espressione.

Montenegro. L’efficienza della magistratura – dice la commissione – è aumentata e il quadro normativo a protezione dei diritti fondamentali si è rafforzato. Poi ci sono i punti critici: ritardi nell’approvazione di leggi anti-corruzione, preoccupazione per la libertà d’informazione, alta disoccupazione. Il negoziato di adesione progredisce, ma manca ancora fiducia nelle istituzioni e nei processi elettorali. Servono riforme “profonde e durature” per rafforzare lo stato di diritto.

Kosovo. Il nome è riportato con un asterisco, dato che solo 23 sui 28 paesi dell’Unione lo riconoscono come indipendente. La commissione dice di “non vedere l’ora” di firmare l’accordo di stabilizzazione e associazione che avvicinerebbe Pristina a Bruxelles. Poi descrive lo stallo seguito alle elezioni di giugno, che ha ritardato “alcune riforme chiave”. Problemi importanti riguardano l’autonomia dei magistrati, la corruzione e il crimine organizzato. Resta tensione nel nord dell’area, a maggioranza serba, ma il miglioramento dei rapporti con Belgrado ha accelerato il percorso verso la Ue.

Bosnia. “Il paese rimane a un punto morto nel processo di integrazione europea”: il rapporto della commissione si apre così. Si denuncia che i leader politici non vogliono approvare le riforme richieste, che i progressi sul fronte economico sono stati molto limitati, che le manifestazioni di inizio anno hanno sottolineato la fragilità della situazione sociale. E ancora: tensioni per la divisione di competenze tra i vari livelli di governo, mancanza di strategie nazionali su energia, trasporti e ambiente, funzionamento insufficiente delle istituzioni. Una bocciatura sonora.

Macedonia. Non va molto meglio a Skopje, che però è già candidata a entrare nell’Unione, come Serbia e Montenegro (e a differenza di Kosovo e Bosnia, che secondo la formula ufficiale “potrebbero” esserlo in futuro, ma non lo sono ancora). Il rapporto parla di “impasse” per il processo di adesione; descrive progressi nella riforma della pubblica amministrazione, ma passi indietro in molti altri campi. Si parla di aumento del controllo politico sui media, calo di fiducia nelle istituzioni e clima insoddisfacente tra minoranza albanese e resto dei cittadini. Infine resta irrisolta la questione del nome del paese, contestato dalla Grecia perché è anche quello di una regione ellenica.

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La località della miniera di Vares, in Bosnia (foto Fotosensibile, http://bit.ly/1jpMrk5)

La località della miniera di Vares, in Bosnia (foto Fotosensibile, http://bit.ly/1jpMrk5)

Da un terremoto di magnitudo 3.5 sulla scala Richter non ci si aspetterebbero danni devastanti. Per fare un esempio, quello dell’Aquila che nel 2009 fece oltre 300 morti era di magnitudo 5.8. È bastato molto meno per uccidere cinque minatori in Bosnia, a Zenica, nel cuore del paese. Al momento della scossa nelle gallerie c’erano circa 60 lavoratori: 22 sono riusciti a uscire da soli, 34 sono stati salvati. Gli altri non ce l’hanno fatta.

Secondo fonti locali nell’ultimo anno nella struttura c’erano già stati due incidenti. I soccorsi sono durati circa 20 ore, e hanno coinvolto minatori arrivati da altre città. Venticinque di loro sono stati ricoverati dopo essersi impegnati nell’impresa. Appena usciti alcuni dei colleghi che erano rimasti intrappolati sono saliti direttamente sulle ambulanze. Per salvarli è servito un tunnel di un centinaio di metri. Si sperava che avessero abbastanza ossigeno per resistere, e per fortuna è andata così.

Esattamente un anno fa aveva fatto notizia uno sciopero di minatori a 250 metri di profondità a Djurdjevik, a un centinaio di chilometri da Zenica. Gli operai chiedevano condizioni di lavoro migliori e stipendi più alti, adeguati al minimo garantito (solo 460 euro al mese!). Due anni fa un loro collega era morto a Breza, vicino a Sarajevo, asfissiato da gas velenosi 300 metri sotto terra.

Di miniere si parla soprattutto quando succedono fatti come questi. Per il resto sembrano appartenere al passato, come se fossero sparite nell’800, o al massimo negli anni ’50, quando un incendio uccise centinaia di lavoratori a Marcinelle, in Belgio. Non è così: le fiamme hanno causato un numero ancora più alto di vittime a Soma, in Turchia, pochi mesi fa. Queste strutture esistono ancora, e in Bosnia ospitano persone pagate male e poco tutelate anche da altri punti di vista, a giudicare dalle cronache di cui sopra.

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In basso a destra, il rigore inventato ottenuto dal Brasile contro la Croazia (Vincent Desplanche, http://bit.ly/R7HqWA)

In basso a destra, il rigore inventato ottenuto dal Brasile con la Croazia (Vincent Desplanche, http://bit.ly/R7HqWA)

Fuori al primo turno. Le due nazionali ex-jugoslave impegnate ai Mondiali brasiliane potevano fare di più. Entrambe si sono piazzate terze nel proprio girone, ma per qualificarsi agli ottavi dovevano arrivare almeno seconde. La Bosnia non ce l’ha fatta per un punto; la Croazia per ben 4. Qualcosa di positivo da riportare a Sarajevo e Zagabria, comunque, c’è.

Per i bosniaci era la prima volta nella massima competizione globale. Finora non erano mai riusciti a disputare neppure la fase finale di un campionato europeo. L’esordio è stato buono sul piano del gioco, ma non su quello del risultato: sconfitti 2-1 dall’Argentina, che ha dominato il gruppo F vincendo tutte le partite. La gara decisiva è stata la seconda con la Nigeria. Gli africani hanno vinto 1-0, ma sul match pende l’ombra di un gol regolare annullato a Dzeko. A questo si aggiunge una foto scattata a fine partita che ritrae l’arbitro abbracciato al portiere avversario, e che ha fatto raccogliere decine di migliaia di firme bosniache per chiedere la cacciata del fischietto dal torneo. Il Mondiale brasiliano, in ogni caso, aveva ancora qualcosa da regalare a Sarajevo: la prima vittoria della Bosnia, che ha battuto 3-1 l’Iran. Questo nonostante alla squadra di Teheran non mancassero le motivazioni: se avesse avuto la meglio avrebbe potuto passare agli ottavi.

La Croazia era arrivata in Sudamerica con una storia ben diversa alle spalle. Il precedente più illustre risale al 1998, tre anni dopo la fine della guerra, quando i calciatori con la maglia a scacchi biancorossi arrivarono terzi. Oltre a quel risultato vale la pena ricordare anche i quarti degli Europei raggiunti nel 1996 e nel 2008. Stavolta è andata male, anche se la prima gara aveva fatto ben sperare. Ai giocatori di Zagabria è toccato sfidare i padroni di casa nel match inaugurale, e pure segnare il primo gol del Mondiale (per la verità un’autorete). Il Brasile non ha impressionato e forse non avrebbe vinto se sull’1-1 non gli fosse stato assegnato un rigore inesistente. Poi i croati hanno asfaltato il Camerun 4-0, e si sono giocati la qualificazione nell’ultima partita col Messico: sconfitti 3-1, con tre gol presi nei venti minuti finali. Che la squadra centramericana fosse più che dignitosa lo hanno confermato gli ottavi con l’Olanda, che ha avuto la meglio con grande fatica. Ai team balcanici ora non resta che sperare in Euro 2016.

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Volontari della Croce Verde Adria impegnati in Bosnia e Serbia (foto Nazionale Anpas, http://bit.ly/1jpMrk5)

Volontari della Croce Verde Adria impegnati in Bosnia e Serbia (foto Nazionale Anpas, http://bit.ly/1jpMrk5)

Ormai la fase dell’emergenza è quasi totalmente finita. In Bosnia solo alcune aree sono ancora invase dall’acqua, dopo le alluvioni che hanno colpito la regione circa tre settimane fa. Ora si contano i morti e i danni, si inizia a ricostruire, e ci si chiede se ci siano responsabilità umane per ciò che è successo. Anzi, più precisamente: responsabilità politiche.

Le vittime sono decine, come si era già capito nelle scorse settimane. I danni sono stimati in una cifra superiore al miliardo, forse due. L’area allagata sarebbe quasi metà del Paese, ma in quelle zone si genererebbe il 75% del pil. Insomma, come se in Italia piogge devastanti avessero colpito le fabbriche del centronord, delle regioni più sviluppate. Sarebbe un problema, anche alla luce della crisi che attraversa la penisola; a maggior ragione lo è in Bosnia, Stato tra i più poveri dell’ex Jugoslavia, con una disoccupazione che potrebbe essere tripla rispetto alla nostra.

Poi ci sono le polemiche. Il presidente della Repubblica Srpska, una delle entità in cui è diviso il Paese, sembra aver usato la situazione per ribadire le sue pretese autonomiste, rifiutando di collaborare con il centro di coordinamento dei soccorsi istituito a livello nazionale. In una municipalità devastata, e guidata da un sindaco dell’opposizione, il governo della RS ha nominato commissario un ex generale indagato per crimini contro l’umanità. A Sarajevo l’ex responsabile della Sicurezza ha portato in tribunale il primo ministro, rimproverandogli di aver tolto fondi alla prevenzione delle catastrofi.

Anche la gestione degli aiuti internazionali non è stata efficiente, tanto che i primi finanziamenti importanti potrebbero arrivare solo dopo l’estate. La classe politica bosniaca, messa sotto accusa nei mesi scorsi da proteste di piazza, non pare aver fatto molto per migliorare la sua reputazione. E il Paese fa i conti un’altra enorme tragedia, a cent’anni dallo scoppio della prima guerra mondiale e a quasi venti dalla fine del conflitto degli anni ’90.

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La Bosnia allagata vista da un elicottero di aiuti sloveni (foto European Commission DG ECHO, http://bit.ly/RaejCi)

La Bosnia allagata vista da un elicottero di aiuti (foto European Commission DG ECHO, http://bit.ly/RaejCi)

“Vedere gente che abbandona in fretta le case mi ha ricordato la guerra”. Una frase come questa può spiegare la portata delle alluvioni in ex-Jugoslavia. L’ha detta a Radio Popolare Azra Ibrahimovic, che lavora per il gruppo solidale Cesvi a Srebrenica. Gli effetti delle piogge torrenziali dei giorni scorsi sono stati davvero drammatici, con decine di morti e migliaia di sfollati.

La catastrofe ambientale che ha colpito soprattutto Bosnia e Serbia sarebbe la peggiore degli ultimi 120 anni. Una delle ultime cifre diffuse parla di 50 vittime, di cui almeno una in Croazia, ma è possibile che il numero salga con il ritirarsi delle acque, che potrebbe portare alla luce altri corpi senza vita. In Bosnia si teme per le conseguenze sui campi minati ancora presenti: da una parte la rimozione dei cartelli che segnalano il pericolo, dall’altra lo spostamento di ordigni che rischiano di arrivare non solo in Serbia, ma addirittura fino al Mar Nero.

Nelle scorse ore il ministro degli Esteri di Sarajevo parlava di un milione di persone senza acqua potabile: oltre un quarto della popolazione. In Serbia paura anche per alcune tra le maggiori centrali elettriche, minacciate dall’inondazione. Repubblica ha parlato di “diluvio che unisce i popoli nemici”, per raccontare la solidarietà tra cittadini di etnie diverse dopo i massacri degli anni ’90. Per chi vuole dare una mano, segnaliamo la pagina apposita di Osservatorio Balcani:

http://www.balcanicaucaso.org/news-balcani/Inondazioni-in-Bosnia-Erzegovina-Serbia-e-Croazia-come-aiutare-152066

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Cattedrale di Banja Luka, capitale della Repubblica Serba di Bosnia (foto Tony Bowden, http://bit.ly/1o0kLtT)

Cattedrale di Banja Luka, capitale della Repubblica Serba di Bosnia (foto Tony Bowden, http://bit.ly/1o0kLtT)

Dopo il Kosovo, la Bosnia? La nuova dirigenza serba potrebbe riuscire là dove aveva fallito (o non aveva nemmeno tentato) la vecchia. Poco più di un anno fa l’accelerazione nel dialogo con Pristina, dopo anni di stallo. Ora una visita importante del neo-primo ministro a Sarajevo, che sembra studiata per migliorare i difficili rapporti postbellici.

Aleksandar Vucic guida il governo di Belgrado da fine aprile. Fa parte del Partito Progressista, che a dispetto del nome è di centrodestra, e fu fondato nel 2008 dall’attuale presidente serbo, Tomislav Nikolic. Prima di lui il capo di Stato era Boris Tadic, europeista di centrosinistra. Il Paese però si è avvicinato all’ingresso nell’Unione soprattutto dopo la sua sconfitta alle elezioni. Finite in mano ai conservatori, le autorità belgradesi hanno compiaciuto Bruxelles facendo concessioni al Kosovo. Se lo avesse fatto la sinistra, forse la destra si sarebbe riversata in piazza. Cosa più difficile se a praticare la distensione sono i nazionalisti, sia pure moderati.

Leggi anche: Serbia europea, la Realpolitik distensiva degli estremisti

Un copione simile potrebbe ripetersi per le relazioni con la Bosnia. Vucic è il primo leader serbo ad andare in visita ufficiale a Sarajevo senza essere prima passato dalla Repubblica Srpska, una delle entità in cui è diviso il Paese, quella storicamente vicina a Belgrado. Gli obiettivi del nuovo capo del governo – che è al primo viaggio all’estero – sarebbero essenzialmente due: stemperare le tensioni connesse alla guerra degli anni ’90 e rilanciare i rapporti in chiave presente e futura, puntando sullo sviluppo economico dell’intera regione balcanica.

Attenzione, però, a cantare vittoria troppo presto. Pochi giorni fa Nikolic ha detto che la Bosnia “non può sopravvivere come Paese unito”. La dirigenza serba, quindi, non sembra unita nel desiderio di voltare pagina con Sarajevo. Non sappiamo quanto le parole dei leader belgradesi siano sincere, e quanto invece nascondano intenzioni tattiche difficili da decifrare. Da capire anche quale sarà la risposta della controparte, che negli ultimi mesi è stata scossa da proteste di piazza e resta oppressa da problemi economici e inefficienza della politica.

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L'assemblea cittadina di Sarajevo (foto #plenumsa, http://bit.ly/1o0kLtT)

L’assemblea cittadina di Sarajevo (foto #plenumsa, http://bit.ly/1o0kLtT)

Le dimissioni di un ministro e di diversi premier cantonali. Sono questi i risultati più visibili della protesta in Bosnia, che dura da quasi tre mesi. Ad aver lasciato il governo è stato il responsabile della Sicurezza, accusato di aver gestito male le violenze di piazza del 7 febbraio. Presto potrebbe dover lasciare il suo posto anche il capo dei servizi di sicurezza.

Le manifestazioni di queste settimane hanno vissuto diverse fasi. La prima, quella dell’esplosione, è durata pochi giorni. Tutto è cominciato a Tuzla, dai cortei degli operai senza lavoro, e si è esteso a molte altre città del Paese. Ci sono state anche violenze: i media internazionali sono rimasti colpiti soprattutto da quelle di Sarajevo, dove è stata attaccata la presidenza ed è stato incendiato un archivio storico. Poi gli scontri sono cessati, ma non la contestazione.

ASCOLTA LO SPECIALE DI RADIO POPOLARE SULLE PROTESTE IN BOSNIA

Le proteste di chi chiede più occupazione e una politica migliore non sono continuate solo nelle piazze, dove tra l’altro il numero dei partecipanti è calato col passare delle settimane. Ai cortei si sono affiancati i plenum, assemblee di cittadini che discutono i loro problemi e fanno proposte alle istituzioni. Alcune sono già state realizzate, molte altre restano da mettere in pratica.

La domanda di fondo è ancora senza risposta: i politici bosniaci cambieranno davvero il loro modo di gestire la cosa pubblica? A ottobre ci saranno le elezioni politiche. I prossimi mesi di campagna elettorale dovrebbero spingere i candidati a modificare realmente il loro atteggiamento. Le questioni centrali sono molto serie: la disoccupazione, sopra il 40%, la corruzione e le privatizzazioni post-Jugoslavia, duramente contestate dai manifestanti.

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