
Ivo Josipovic e Boris Tadic, presidenti di Croazia e Serbia. Nelle loro mani c'è il cammino verso la riconciliazione tra i due Stati
Dell’assedio di Sarajevo si parla ancora spesso. Di quello di Vukovar molto meno. Il 24 agosto 1991 i serbi attaccarono la città croata, importante porto fluviale e industriale sul Danubio. Sarebbero riusciti a conquistarla solo il 18 novembre. Due giorni dopo, avrebbero trucidato 261 persone, uccise con un colpo alla nuca e sepolte in una discarica. Un massacro per cui oggi Belgrado chiede ufficialmente scusa.
“Sono qui per rendere omaggio alle vittime ed esprimere parole di pentimento e rimorso”, ha detto qualche giorno fa il presidente Boris Tadic, in visita a Vukovar insieme all’omologo croato Ivo Josipovic. La richiesta di perdono, ha sottolineato il capo di Stato serbo, arriva non a titolo personale, ma a nome di tutta la comunità nazionale: un gesto importante verso l’ancora difficile riconciliazione.
“Oggi Vukovar è una città distrutta, ma libera”, annunciò la tv di Belgrado il giorno della vittoria serba. Nessun governo occidentale denunciò gli orrori di quei giorni: non perché non si sapesse cosa stava accadendo, ma perché una presa di posizione forte avrebbe irritato Milosevic, giudicato una pedina troppo importante del conflitto in corso. Il presidente-dittatore si sarebbe approfittato a lungo di questo atteggiamento timoroso da parte di Europa e Stati Uniti, che anche negli anni successivi avrebbero chiuso gli occhi su tante, troppe atrocità, pur di non compromettere il dialogo con la Serbia.
A voler essere cinici, si potrebbe pensare che le scuse di Tadic siano una mossa calcolata, utile per avvicinare ancora Belgrado all’ingresso nell’Unione europea. A voler essere realisti, si può dire che senz’altro questo gesto raccoglie l’apprezzamento di Bruxelles, ma che è comunque un passo importante, atteso da anni dai familiari delle vittime della strage. Nessuno può cancellare il passato. Ma rendere giustizia alla verità può permettere ai Balcani di vivere meglio il presente.