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Gli interisti serbi Dejan Stankovic e Zdravko Kuzmanovic (Eurosport)

Dejan Stankovic e Zdravko Kuzmanovic: entrambi centrocampisti, interisti, serbi (Eurosport)

Un campionato serbo. Si potrebbe definire così – in ottica ex-jugoslava – la serie A di quest’anno. Chiuso il mercato invernale tre settimane fa, da qui a fine stagione potremo vedere sui nostri campi 35 giocatori provenienti dai Paesi che componevano la Repubblica Socialista di Tito. Il primato spetta appunto alla Serbia: 13 calciatori, oltre un terzo del totale. Seguono Slovenia (9), Croazia (5), Montenegro (4), Bosnia (3) e Macedonia (1).

La squadra più ex-jugoslava, manco a dirlo, è l’esterofila Inter. Due sloveni (i portieri Handanovic e Belec), un croato (il neo-acquisto Kovacic) e due serbi (Stankovic e Kuzmanovic). Secondo posto per la Fiorentina, con due montenegrini (Jovetic e Savic) e due serbi (Tomovic e Ljajic). Terza piazza a pari merito per Atalanta e Torino: la prima con due croati (Livaja e Budan) e un serbo (Radovanovic), il secondo con uno sloveno (Birsa), un serbo (Stevanovic) e un montenegrino (Bakic).

Con i calciatori serbi che giocano in Italia si potrebbe formare una vera e propria squadra, ricca a centrocampo e un po’ rattoppata in difesa e attacco. In porta Brkic (Udinese); dietro Basta (Udinese), Tomovic (Fiorentina) e Cosic (Pescara); in mezzo Stevanovic (Torino), Kuzmanovic e Stankovic (Inter), Radovanovic (Atalanta) e Krsticic (Sampdoria); davanti Ljajic (Fiorentina) e Jankovic (Genoa). Non proprio un undici da scudetto, ma nemmeno da retrocessione. Le stelle ex-jugoslave nel nostro Paese, comunque, sono distribuite abbastanza equamente tra i vari Stati: detto di Handanovic e Stankovic, ricordiamo Pjanic (Bosnia/Roma), Pandev (Macedonia/Napoli) e i montenegrini Jovetic (Fiorentina) e Vucinic (Juventus). Sei giocatori che frequentano la parte alta della classifica. E che potrebbero essere decisivi per gli obiettivi delle loro squadre.

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Luciano Benetton, presidente e fondatore del gruppo, composto da 55 società. Di queste, 40 hanno sede all'estero

Dopo la Fiat, la Benetton. Il gruppo industriale veneto starebbe per spostare una parte della sua produzione in Serbia: è la notizia portata alla luce dal Fatto Quotidiano, che cita come fonti la tv e il governo di Belgrado. Destinazione dell’investimento sarebbe Nis, cento chilometri a sud di Kragujevac, dove la Fiat produrrà la monovolume L0.

Con circa 290 mila abitanti, Nis è la terza città della Serbia. Qui è nato l’imperatore romano Costantino. E qui la Benetton dovrebbe rilevare l’area industriale dismessa dell’impresa tessile Niteks. Il condizionale è d’obbligo, perché l’accordo tra l’azienda italiana e il governo serbo non è ancora stato firmato. Belgrado chiede l’assunzione dei 600 dipendenti Niteks rimasti senza lavoro. Per ognuno di loro, è disposto a versare a Benetton una cifra compresa tra i 4 mila e i 10 mila euro.

Nis è all'incrocio tra le autostrade che connettono l'Asia Minore al Vecchio Continente. Una posizione strategica per Benetton

A operazione conclusa, dice il Fatto, quasi l’80% dei capi d’abbigliamento dell’azienda saranno prodotti all’estero. Un dato che fa impressione, soprattutto se paragonato alla quota di vendite del gruppo in Italia (il 45%), e che diventa inquietante, se accostato alle voci di licenziamenti che corrono negli stabilimenti di Ponzano e Castrette, in provincia di Treviso.

Perché anche Benetton va in Serbia? Per lo stesso motivo della Fiat: per risparmiare. Il gruppo torinese può dare agli operai di Kragujevac 400 euro, contro i 1.100-1.200 di chi lavora in Piemonte. L’azienda veneta non si comporterà diversamente. Del resto, nel Paese balcanico la paga media è di 80 euro. E a Nis nessuno farà un referendum. Chi non ha lavoro dice sempre di sì.

Leggi anche: Fiat in Serbia per risparmiare. E Kragujevac “resuscita”

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Laura Halilovic è nata a Torino nel 1989. Ha la cittadinanza bosniaca, ma non è ancora riuscita ad ottenere quella italiana

“Mi chiamo Laura Halilovic. Sono nata il 22 novembre 1989”. Ventun anni e una passione: quella per il cinema. Ventun anni e un’etichetta pesante da portare addosso: quella di rom. Nel 2009 la Rai hai trasmesso Io, la mia famiglia rom e Woody Allen, il primo documentario di Laura, che oggi fa l’assistente alla regia di Ricky Tognazzi per una fiction. E prepara il suo primo film.

“Il primo giorno di scuola ero entusiasta. Volevo conoscere i compagni di classe. Poi sotto voce sentii i loro commenti: ‘Ci mancava solo la zingara’, dicevano”. La famiglia di Laura arriva da Banja Luka, Bosnia, durante la guerra. Si stabilisce nel campo nomadi di via Germagnano, nella periferia torinese. Poi ottiene una casa popolare nel quartiere di Falchera: cento metri quadri per nove persone.

“Sogno di fare cinema da quando avevo nove anni”. Galeotto fu Manhattan: il capolavoro di Woody Allen incuriosisce la piccola Laura, che deve rimboccarsi le maniche per realizzare i suoi sogni. “Non ho avuto la possibilità di studiare oltre la terza media. Quello che so sul cinema l’ho imparato direttamente facendolo e guardando molti film”. Nel 2007 il suo primo cortometraggio, Illusione, vince il festival Sotto18. Nel 2009 Io, la mia famiglia rom e Woody Allen riceve il Gran Premio Urti (Università Radiofonica e Televisiva Internazionale) per il documentario d’autore.

“Non consideravo che i rom fossero uguali a noi”. “Alla fine sono gente come noi”. “Mi ha fatto capire che non sono tutti uguali, tutti colpevoli”. Le risposte al questionario compilato dagli studenti delle scuole superiori piemontesi parlano chiaro: chi vede il documentario di Laura guarda con meno diffidenza all’etnia più emarginata d’Italia. Profumo di pesche, il film in progettazione, è una storia d’amore fra una giovane rom e un cuoco Gagè, ovvero non rom. Un amore che va oltre gli stereotipi. E che può aiutare a superarli.

Leggi anche: Dijana Pavlovic, quanto è dura diventare una rom italiana

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